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La storia di Jingle Bells: come un canto d’osteria è diventato un classico del Natale

“Jingle Bells” è uno dei canti natalizi per eccellenza, tra i grandi classici immancabili di questo periodo: bastano le prime note e quel tintinnio inconfondibile di campanellini ed è subito Natale. Lo abbiamo canticchiato tutti almeno una volta (più o meno così: “ouofan itisurrai inauanohssoppen slhey!”) ma facendo attenzione al testo si scoprirebbe subito che col Natale non c’entra nulla: in realtà è un canto nato in osteria che parla di ragazze e corse con le slitte.

La storia di “Jingle Bells” inizia 170 anni fa. Siamo nell’America di fine ‘800, a Medford nel Massachusetts, una cittadina poco distante da Boston, dove a quel tempo si svolgevano delle popolari corse di slitte trainate da cavalli. Qui viveva James Pierpont (1822-1893) un compositore e cantautore statunitense dal carattere ribelle ed avventuroso: pare che a quattordici anni fuggì da un collegio del New Hampshire per imbarcarsi su una baleniera verso la California e poi fuggì per una seconda volta da moglie e figli per trasferirsi nel Massachusetts dove tentò la fortuna alla corsa all’oro, ma perse tutto in un incendio.

James Lord Pierpont

Ed è proprio qui che James Pierpont ha scritto quella che oggi chiamiamo “Jingle Bells”. Una targa affissa su un edificio di Medford afferma che James Pierpont ha composto la famosa canzone nel 1850 proprio in quella zona, nella Taverna Simpson (il nome è già tutto un programma) ispirato dalle famose corse di slitte che si svolgevano tra le vie della città.

La prima versione era intitolata “One Horse Open Sleigh” (letteralmente: la slitta trainata da un cavallo) e nel suo significato originale era un inno alle divertenti corse con le slitte, composto in una taverna tra brindisi e probabilmente molto rum; Medford era un luogo noto per la produzione di rum e quelle gare invernali dovevano essere un ottimo motivo per dare fondo alle botti!

Corse di slitte dunque, bevute in taverna e ragazze.

Ecco un verso della canzone:

Now the ground is white, go it while you’re young,
Take the girls tonight and sing this sleighing song.
Just get a bobtailed bay, two-forty for his speed,
Then hitch him to an open sleigh, and crack! You’ll take the lead.


“Ora la terra è bianca, esci finché sei giovane, porta le ragazze stanotte e canta questa canzone da slitta. Prendi un cavallo che vada veloce, poi attaccalo ad una slitta e via! Sarai in testa.”
Sapendo la storia ora questo testo acquista il suo senso.

Pierpont poi si trasferì a Savannah, si risposò (con la figlia del sindaco) e divenne insegnante, organista e direttore del coro di voci bianche. Qui riprese mano a quella sua vecchia canzone e la pubblicò nel 1857 con l’intenzione di trasformarla in un allego canto di festa per il Giorno del Ringraziamento, una delle feste nazionali americane più importanti che cade ogni anno il quarto giovedì di novembre.

Fu un tale successo che ne venne richiesta subito una seconda esecuzione durante il periodo di Natale. Nel 1859 fu ripubblicata con il titolo “Jingle Bells” e diventò uno dei canti di Natale più famosi al mondo.

Un’incisione fedele alla versione originale
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All I Want for Christmas… Without You. Mariah Carey e i Beatles

Siamo a dicembre, nevica e il Natale è sempre più vicino. È il momento di Mariah Carey, perché non è Natale senza aver ascoltato almeno una volta “All I Want for Christmas is You”. Negozi, supermercati, in radio o in televisione è ovunque da 25 anni. Leggendaria tanto da rientrare ogni anno in questo periodo nelle classifiche di vendita mondiali; solo la Vigilia di Natale 2018 ha battuto ogni record di Spotify totalizzando 10,8 milioni di streaming in 24 ore.

Mariah Carey ha scritto “All I Want for Christmas is You” in 15 minuti insieme al suo fidato produttore-scrittore Walter Afanasieff, ed è stata pubblicata nel 1994 come singolo di lancio dal suo quarto album in studio dal titolo “Merry Christmas”, il primo interamente dedicato al Natale. Una buffa curiosità: l’allora marito della Carey e produttore discografico Tommy Mottola (boss della Sony e dalla Columbia) è il Babbo Natale presente nel videoclip ufficiale!

Un successo che arriva pochi mesi dopo l’uscita del terzo album “Music Box” (1993) che ha lanciato la carriera a star internazionale di Mariah Carey. “Music Box” è il suo disco più venduto con 32 milioni di copie al mondo ed è anche l’album femminile più venduto di tutti i tempi. Tra le canzoni in scaletta il singolo che l’ha portata al successo: “Without You”.

“I can’t live if living is without you, I can’t live, I can’t give anymore” l’abbiamo cantata tutti. Quale delle due sia la più amata non saprei, di certo però posso dirvi questo: “Without You” è una cover!

Mariah Carey – “Without You” (1993)


Mariah Carey è lodata per essere una delle voci più belle del mondo (ha ben 5 ottave di estensione vocale), ma anche per essere l’autrice o co-autrice dei suoi pezzi. È anche una brava interprete e nella sua carriera ha realizzato qualche cover tra cui la romantica ballad “Without You” che la portò al successo e fece conoscere al mondo la sua voce, in realtà pubblicata per la prima volta nel 1970 dalla casa discografica Apple Records dei Beatles.

Gli autori di questa super hit sono i Badfinger, uno sfortunato gruppo inglese degli anni Sessanta che ebbe l’onore e il peso di essere etichettato dalla stampa dell’epoca come erede dei Beatles. Furono i primi a pubblicare per la Apple Records, nel 1968, e i Fab Four collaborarono con loro anche nella scrittura e nella produzione di alcuni loro brani.

Per la Apple Records uscirono diversi dischi dei Badfinger tra cui “No Dice” (1970) con la ballad “Whithout You”, brano raggiunse il successo dopo e non tramite la loro registrazione. La storia dei Badfinger è una triste pagina della musica: il gruppo fu rovinato da manager disonesti e corrotti, contratti capestri e problemi finanziari che portarono al suicidio i due principali frontman e compositori del gruppo, Pete Ham e Tom Evans, rispettivamente nel 1975 e nel 1983.

Badfinger – “Without You” (1970)


La storia di “Whitout You” ha la sua svolta quando, forse ad una festa, la ascoltò per caso Harry Nilsson, un musicista e cantautore americano che durante la sua carriera compose con e per John Lennon e Ringo Starr. Si intrecciano ancora i Beatles nella storia di questa canzone che Nilsson quando la ascoltò per la prima volta pensò fosse proprio del quartetto di Liverpool. Conoscendo la storia dei Badfinger, non ci era andato molto lontano. Harry Nilsson la registrò e la pubblicò nel suo album “Nilsson Schmilsson” del 1971.

Harry Nilsson – “Without You” (1971)


La versione di Nilsson ebbe molto successo anche a livello internazionale ed è la canzone con cui è maggiormente ricordato, insieme a “Everybody’s talking” (1969) anche questa in realtà una cover dell’originale scritto da Fred Niel nel 1968. La conoscete sicuramente, cliccate qui.

Prima e dopo la ripresa di Mariah Carey del 1993 sono stati molti gli artisti che hanno realizzato la loro versione di “Without You”, anche in Italia dove sulla scia del successo di Nilsson è diventata “Per chi” interpretata da Johnny Dorelli già nel 1972 e dai Gens sempre nel 1972.

Johnny Dorelli – “Per chi” (1972) / in questo video insieme a Mina


Gens – “Per chi” (1972)
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La Torn che Imbruglia

Se avete più di 30 anni avviso che questo post potrebbe urtare la vostra sensibilità.
Continuate a vostro rischio e pericolo!

O almeno quando l’ho scoperto a me è successo, è crollato un mito. Più che un mito, è andata in frantumi l’immagine che avevo nella memoria di una cantante e di una canzone che ho ascoltato milioni di volte, che è stata la colonna sonora dell’inverno 1997/1998. Perché Natalie Imbruglia è “Torn”, “Torn” è Natalie Imbruglia e non so come dirvelo, ma lo avrete già capito: è una cover.

Non è nemmeno la prima cover esistente di questa canzone, ma è di certo l’unica versione ad aver ottenuto un così grande successo internazionale. È stato il singolo di punta di “Left of the Middle” (1997) l’album di debutto di Natalie Imbruglia che ha lanciato la carriera di questa artista in precedenza attrice di soap-opera australiane. “Torn” della Imbruglia arrivò in vetta alle classifiche di tutto il mondo e ancora oggi a più di 20 anni di distanza è una delle hit più rappresentative della sua breve carriera di cantante (poi ha pubblicato altri 4 album, ma senza raggiungere grandi riscontri).

Natalie Imbruglia – “Torn” (1997)


Gran parte del successo, oltre all’orecchiabilità della canzone e all’ottima produzione, si deve anche all’originale videoclip diretto nel 1997 dalla regista Alison Maclean. In una sorta di metateatro (teatro nel teatro) la bellezza impattante della Imbruglia e i suoi grandi occhi dall’espressione smarrita in primo piano sono il centro di tutto il videoclip, lasciando sullo sfondo un set cinematografico che racconta se stesso. Truccatori che entrano nell’inquadratura, tecnici che spostano le scenografie, finti ciak sbagliati: tutto a simulare prove di una tormentata storia d’amore tra lei e l’attore co-protagonista Jeremy Sheffield.

Così è nata una stella, anzi, una meteora. “Torn” è Natalie Imbruglia, nulla potrà mai toglierci questo ricordo, anche se il brano in realtà fu scritto dai californiani Scott Cutler (chitarra) e Anne Preven (voce) nel 1993 per la loro band, gli Ednaswap. Iniziarono a suonarla nei loro concerti senza registrarla su disco e fu subito notata dalla cantante Pop danese Lis Sørensen. La Sørensen tradusse il testo e pubblicò il pezzo nel 1993 come singolo dal titolo “Brændt” (scottato/bruciato) che risulta essere contemporaneamente la prima cover e la prima pubblicazione ufficiale di questa canzone.

Lis Sørensen – “Brændt” (1993)


Gli Ednaswap pubblicarono successivamente la loro versione (il vero originale) nel loro album di debutto dal titolo “Ednaswap” nel 1995.  Il disco non ebbe un’ampia distribuzione e fu l’unico del gruppo pubblicato dalla EastWest Records, qualcosa deve essere andato storto negli accordi tanto che gli Ednaswap sciolsero il contratto e firmarono con la Island Records. Il quintetto di Los Angeles pubblicò altri due album che non incontrarono comunque il favore del pubblico e si sciolse nel 1999. Eppure sono la band – sconosciuta – che ha composto uno dei più grandi successi Pop degli anni ’90! Meglio far attenzione a quello che si sogna: la cantate e autrice Anne Preven scelse di chiamare il suo gruppo “Ednaswap” dopo aver sognato di essere in una band con quel nome che, durante un concerto, fece fiasco.

Ednaswap – “Torn” (1995)
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The Man Who Sold the World: David Bowie o Kurt Cobain?


David Bowie è un genio. È persino riuscito ad andare “back to the future” e fare una cover dei Nirvana nel 1970, vent’anni prima! Che fosse davvero un alieno?

Vi ho già parlato di come la Musica possa essere una macchina del tempo, questo però è un caso diverso. È uno di quegli esempi in cui la musica ha creato uno spartiacque tra generazioni: adolescenti anni ’70 vs anni ’90. Due sono le cose che succedono quando si ascolta “The Man Who Sold the World”: o viene subito alla mente David Bowie o Kurt Cobain.

Quando suono “The Man Who Sold the World” ci sono sempre un sacco di ragazzini che mi dicono “È fantastico che tu faccia una canzone dei Nirvana”, e io penso “Fottetevi, piccoli segaioli!”

David Bowie (ottobre 2000)

“The Man Who Sold the World” è un brano di David Bowie, ottava traccia dell’omonimo album uscito nel 1970. È una delle canzoni più inquietanti di Bowie, dalle mille recensioni e dalle mille interpretazioni. Il testo parla di un incontro con un altro Io, una sorta di doppio se stesso, e inizia con una ripresa della poesia “Antigonish” di Hughes Mearn: “Yesterday, upon the stair, I met a man who wasn’t there. He wasn’t there again today, I wish, I wish he’d go away…” (Bowie: “We passed upon the stair, we spoke of was and when. Although I wasn’t there, he said I was his friend”. ).

David Bowie – “The Man Who Sold The World”


David Bowie molti anni dopo nel 1997 durante uno speciale della BBC a lui dedicato ne ha dato una spiegazione: «Penso di averla scritta perché c’era una parte di me che stavo ancora cercando (…) Per me quella canzone ha sempre esemplificato, in un certo senso, il modo in cui ti senti quando sei giovane, quando sai che c’è un pezzo di te stesso che ancora non hai incontrato. Hai questa grande ricerca, questo grande bisogno di scoprire cosa tu sia realmente».

Siamo negli anni ’90, gli anni di MTV, delle cassettine, dei primi CD e del celebre programma “MTV Unplugged”. E se c’è un motivo per cui questo programma è passato alla storia è per il malinconico capolavoro acustico dei Nirvana, il loro concerto “Unplugged in New York” registrato il 18 novembre 1993. Un’immagine bloccata per sempre nella memoria, un concerto passato alla storia. Si è scritto di tutto su questa serata, tra mitologia e realtà: dall’allestimento con gigli e candele nere «exactly, like a funeral» al pensiero che pochi mesi dopo, nell’aprile 1994, Kurt Cobain si è ucciso con un colpo di fucile.

Dopo la morte di Cobain, MTV mandò in onda il concerto di heavy rotation e pubblicò il disco il 1 novembre 1994. Fu una delle più grandi operazioni commerciali della storia: schizzò in vetta alle classifiche di tutto il mondo e sorpassò anche l’ultimo album dei Nirvana “In Utero” vendendo oltre 6,8 milioni di copie. La scaletta di quel concerto era strana: mancavo alcuni loro grandi successi e c’erano molte cover, in particolare una e forse la più iconica: “The Man Who Sold the World”.

Nirvana – “The Man Who Sold the World”


Una delle numerose interpretazioni di “The Man Who Sold the World” (l’uomo che ha venduto il mondo) spiega il testo come l’incontro tra il vecchio e il nuovo Io, tra il positivo Io del passato e l’odioso e opportunista Io del presente, colui che ha venduto il mondo; il cambiamento sarebbe causato dal successo che trasforma in qualcosa di peggiore. Ecco qui: lettura perfetta del dramma esistenziale di Kurt Cobain.

Non sapremo mai la verità sul folle gesto di Cobain, si è scritto e ho letto di tutto: si accusano i Nirvana di aver portato al successo il Grunge che avrebbe poi distrutto il Rock e portato alla decadenza musicale di adesso… Cobain dice che tutto quel successo nemmeno lo voleva, che lo ha schiacciato… la rivista musicale Spin scrive: «La voce sofferente di Kurt Cobain nella versione unplugged dei Nirvana di questa melodia cosmica di Bowie del 1970 appare ancora più inquietante dopo che la canzone è diventata un classico del rock postumo».

È un mondo molto lontano da quel Bowie seducente nella copertina di “The Man Who Sold the World” disteso su un divano blu con lo sguardo dritto in camera. Cobain ha lo sguardo abbassato, gli occhi socchiusi, non guarda nemmeno il pubblico, concentrato e nascosto nel suo enorme cardigan beige.

Sono rimasto semplicemente sbalordito quando ho scoperto che a Kurt Cobain piacevano i miei lavori, ho sempre voluto parlare con lui a proposito delle ragioni per cui aveva fatto una cover di “The Man Who Sold the World“… è stata una buona interpretazione e mi è sembrata in qualche modo molto onesta. Sarebbe stato bello lavorare con lui, ma anche solo parlare con lui sarebbe stato davvero fantastico.

David Bowie

Nel gennaio 1995 “The Man Who Sold the World” dei Nirvana fu pubblicata come singolo ed ottenne un enorme successo, il videoclip fu sparato ovunque in rotazione su moltissime emittenti televisive. È così che una cover pubblicata postuma è diventata immortale eclissando l’originale, anche se era di un certo David Bowie che si sentiva dire: “È fantastico che tu faccia una canzone dei Nirvana!”.

(…) We must have died alone
A long long time ago

Who knows? not me
We never lost control
You’re face to face
With the man who sold the world

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Venus, una cover nella cover: da Oh Susanna alle Bananarama

«She’s got it, yeah baby she’s got it. I’m your Venus, I’m your fire, at your desire» impossibile resistere a questo ritornello, si inizia a battere il tempo e il gioco è fatto! È “Venus” delle Bananarama, il trio femminile britannico composto da Sara Dallin, Siobhan Fahey e Keren Woodward, che nel 1986 ha scalato le classifiche di tutto il mondo con questa super hit Pop-Rock Dance.

Un successo tutto Europeo, prima che Inglese, Olandese: “Venus” è una canzone originariamente scritta e interpretata nel 1969 dal gruppo olandese Shocking Blue. Già all’epoca un grandissimo successo tanto da raggiungere la posizione numero 1 della Billboard Hot 100 il 7 febbraio 1970.

Shocking Blue – “Venus” (1969)


Scritta da Robbie Van Leeuwen, chitarrista degli Shocking Blue, come omaggio a Venere, la dea dell’amore, contiene un enorme errore nel testo, passato alla storia. Il primo verso nelle sue intenzioni doveva significare “La divinità sulla cima della montagna” ma tradusse “divinità” non con la parola “goddess” ma con “godness. Un errore di cui non si è accorto nessuno, nemmeno la cantante Mariska Veres che in sala di registrazione l’ha cantata così. Le versioni successive sono state corrette, ma la prima incisione ufficiale salita in vetta alle classifiche inizia con un grande refuso. (Mi consolo, i refusi sono sempre tremendamente in agguato!)

I colpi di scena sono appena iniziati. “Venus” non è tutta farina del sacco di Robbie Van Leeuwen che si è “ispirato” ad una canzone pubblicata nel 1963 dai Big 3, un trio (era destino) Folk americano di cui faceva parte anche Cass Elliot prima di entrare nei The Mama & The Papas. Si intitolava “The Banjo Song” e musicalmente è molto simile a “Venus”, il testo invece è preso dal famosissimo standard Folk “Oh Susanna”. Ascoltarla oggi risulta come un mash-up stranissimo:

Big 3 – “The Banjo Song” (1963)


Ispirazioni, plagi, citazioni, cover… i confini sono molto labili, ne ho già parlato prendendo come esempio i Led Zeppelin che sono stati accusati e citati per plagio molte volte. Agli Shocking Blue non è successo, anche se c’è un’altra “ispirazione” nella loro “Venus”: il riff iniziale di chitarra somiglia a quello di “Pinball Wizard” degli Who, uno dei brani più celebri della loro opera rock “Tommy”.

“Venus” ha venduto tantissimo ed è stato il singolo di maggior successo delle Bananarama che hanno dovuto lottare con diversi produttori per convincerli a farlo incidere. Le tre cantanti erano certe del potenziale di questo pezzo in versione Dance, ma incontrarono la resistenza dei loro produttori e si rivolsero ad un altro trio: Stock, Aitken & Waterman tre maghi della Dance anni ’80 che da pochissimo avevano portato al successo “You Spin Me Round (Like a Record)” dei Dead or Alive.

Bananarama – “Venus” (1986)


“Venus” fu pubblicato nel loro terzo album “True Confession” e il singolo fu accompagnato da un videoclip lanciato da una massiccia programmazione da parte di MTV in tutto il mondo. Le tre Bananarama cambiano più volte costume e ambientazione: divinità greche, vampire, sacerdotesse, arrivando persino a ricreare la scena de “La nascita di Venere” di Botticelli. Iconico anche il balletto, ideato dal coreografo italiano Bruno Tonioli.

Un successo quasi senza tempo che negli anni è stato reinterpretato da molti artisti, è stato utilizzato come colonna sonora di diversi film, show televisivi e pubblicità. “Venus” l’ha rifatta anche Mina! È una traccia del suo album “Sì, buana” uscito proprio nel 1986. Una Mina in versione decisamente Rock, assolo di chitarra distorta incluso. Pazzesca e inaspettata, ascoltate:

Mina – “Venus” (1986)


“Venus” non è stato il solo brano degli Shocking Blue ad aver raggiunto il successo molti anni dopo grazie ad una famosissima cover. Proprio nell’album “At Home” del 1969 c’era anche “Love Buzz” famosa per essere diventata nel 1988 il singolo di debutto dei Nirvana, gli Shocking Blue erano uno dei gruppi preferiti del bassista Krist Novoselic.

Il singolo “Love Buzz” dei Nirvana conteneva anche il brano “Big Cheese”. Inizialmente furono messe in commercio soltanto 1000 copie numerate del 45 giri, realizzate in vinile nero. In seguito, cominciarono a circolare anche dei bootleg riprodotti su vinile colorato. Entrambe le canzoni faranno poi parte di “Bleach”, album con cui il gruppo di Seattle esordì nel 1989.

Shocking Blue – “Love Buzz” (1969)
Nirvana – “Love Buzz” (1988)

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E pensare che “I Will Always Love You” doveva cantarla Elvis


Il 25 novembre 1992 nei cinema americani usciva una delle love story più amate di tutti i tempi: “Guardia del corpo” (The Bodyguard) con Kevin Costner nei panni della guarda del corpo della famosa pop star e attrice di fama mondiale Whitney Houston, nel ruolo quasi di se stessa.

Film cult reso famoso anche dalla canzone “I Will Always Love You” un successo mondiale e ad oggi la colonna sonora più venduta di sempre con oltre 45 milioni di copie vendute. Solo il singolo si piazzò in vetta alle classifiche con oltre 16 milioni di copie vendute e Whitney Houston fu la prima artista donna nella storia a raggiungere questo primato. Un successo che ha trasformato “I Will Always Love You” nella sua canzone simbolo, un connubio imprescindibile tanto che è impossibile non pensare all’una senza collegarla immediatamente all’altra.

Se state leggendo questa premessa nella rubrica #DisCover sapete che c’è qualcosa che sto per dirvi: “I Will Always Love You” di Whitney Houston è una cover. Ed era anche già sta stata la colonna sonora di uno, anzi due, film di successo. La canzone originale è della regina del country Dolly Parton e l’idea di utilizzarla come colonna sonora del film è stata di Kevin Costner. Una lunga storia in cui stava per entrare anche Elvis, ma partiamo dall’inizio.

“I Will Always Love You” è stata scritta nel 1973 da Dolly Parton e non è una canzone d’amore in senso stretto. Nasce come addio al sodalizio artistico tra lei e Porter Wagoner, suo partner per 7 anni nello show televisivo “The Porter Wagoner Show”, programma che lanciò la sua carriera e la portò a diventare una delle star di maggior successo della storia della musica country.

Non una canzone d’amore, ma una dichiarazione di amicizia e di stima per un amico da cui aveva deciso di separarsi. Il giorno dopo averla scritta Dolly Parton la cantò a Porter Wagoner per informarlo così della decisione che aveva preso e per esprimergli ciò che provava: «ho scritto questa canzone per dire: “Ecco come mi sento. Ti vorrò bene per sempre, ma devo andare”». La storia racconta che Parton fosse in lacrime alla fine del pezzo e che abbia detto: è la canzone più bella che io abbia mai sentito.

Dolly Parton – “I Will Always Love You”


La dolce e malinconica ballata country “I Will Always Love You” è stata pubblicata il 4 aprile 1974 e fu un successo dell’epoca. Scelta da Martin Scorsese per il film “Alice non abita più qui” del 1974, nel 1982 fu reincisa per la colonna sonora di “Il più bel Casino del Texas” di Colin Higgins, in cui la Parton recitava insieme a Burt Reynolds.

C’è ancora un grande colpo di scena (mancato): “I Will Always Love You” stava per essere cantata anche da Elvis Presley che se n’era innamorato e aveva chiesto di poterne incidere una sua versione. Dolly Parton era interessata, ma i manager di Elvis avevano chiesto anche la cessione di parte dei diritti, sembra circa del 50%, e lei rifiutò.

Le mie canzoni erano tutto ciò che avrei lasciato alla mia famiglia. La gente diceva che ero stupida. Ho pianto tutta la notte. Avrei ucciso per sentirlo cantare la mia canzone. Ma alla fine, quando Whitney la registrò, sono stata contenta di non aver ceduto.

Dolly Parton (intervista su Mojo, 2004)

Dieci anni dopo la trasformazione: da malinconica ballata country con banjo e chitarra alla hit Pop che tutti conosciamo. Era il 1992, durante le riprese del film “Guardia del corpo”, Whitney Huston inizialmente avrebbe dovuto registrare una cover di “What Becomes of the Brokenhearted” di Jimmy Ruffin, ma quando i produttori si accorsero che era già stata usata come colonna sonora del film “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno” (1991) cambiarono idea. E fu proprio Kevin Costner (che era anche il co-produttore del film!) a suggerire di utilizzare “I Will Always Love You” intuendo che sarebbe stata perfetta per lei:

Ho detto: “Questa è una canzone molto importante in questo film”. Non mi importava che fosse già passata in radio. Non mi importava. Ho detto: “All’inizio la faremo anche a cappella. Ho bisogno che sia a cappella perché fa capire quanto le piaccia quel ragazzo, tanto da cantare senza musica”.

Kevin Costner
Whitney Houston – “I Will Always Love You”


Ed è proprio alla radio che Dolly Parton ascoltò per la prima volta la nuova versione della sua canzone:

Ho acceso la radio e all’improvviso ho sentito la parte a cappella. Sentivo che era qualcosa di familiare, e poi quando mi sono resa conto di quello che stavo ascoltando, quando Whitney è arrivata al ritornello… ho dovuto fermare la macchina perché mi sentii il cuore quasi balzare fuori dal mio corpo.

Ha preso quella mia semplice canzone e l’ha resa così potente, tanto che è diventata quasi la sua canzone. Alcuni artisti dicono: “Ooh, odio il modo in cui hanno rifatto la mia canzone” o “Quella versione non era ciò che avevo in mente”. Io penso sia meraviglioso che le persone possano prendere una canzone e interpretarla in molti modi diversi.

E pensare che la sceneggiatura del film fu scritta da Lawrence Kasdan nel 1975 e doveva avere come protagonisti Steve McQueen e Diana Ross, ma fu giudicato troppo controverso per l’epoca. Venne riproposto a fine anni ’70 con Ryan O’Neal al posto di McQueen, ma fu bloccato dopo la separazione tra O’Neal e Diana Ross. In totale è stato respinto 67 volte!

Non era nemmeno certo fin dall’inizio che la parte andasse a Whitney Houston che tra l’altro non è nemmeno la ragazza tra le braccia di Kevin Costner nella locandina del film, è una controfigura! Ma questa è un’altra storia…

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Tutti conoscono i Led Zeppelin, ma chi conosce Jake Holmes?


“I bravi artisti copiano, i grandi artisti rubano” diceva Picasso. Capita spesso sentir parlare di plagi, citazioni, omaggi, ispirazioni. C’è una sottile differenza che si gioca tutta sul filo di un rasoio sottilissimo.

Oggi la rubrica #disCover è in bilico su quel filo, tra una cover e una semplice ispirazione. Un posto abbastanza scomodo in cui i Led Zeppelin si sono trovati spesso: le cause di plagio a loro attribuite sono diverse e cominciano subito all’inizio della loro carriera con alcuni brani del loro primo album, il leggendario “Led Zeppelin I”.

Tra le varie dispute sui plagi in “Led Zeppelin I” (Rolling Stone li accusò di aver copiato “Black Mountain Side” da “Black Water Side” di Bert Jansch e il giro di “Your Time Is Gonna Come” dall’album dei Traffic “Dear Mr. Fantasy”) ci fu chi notò subito che “Dazed and Confused” era basata sull’omonimo brano di Jake Holmes, un poco conosciuto cantante folk.

È uno dei brani fondamentali del disco e racchiude tutta la filosofia dei Led Zeppelin. Un Rock Blues quasi Psichedelico, capace di strizzare l’occhio anche al Folk bianco delle origini. Un discorso cominciato da Yardbirds, Jimi Hendrix e Cream: portare avanti l’evoluzione del Blues in diverse direzioni attitudinali e ritmiche verso Hard Rock e Heavy Metal.

La storia di “Dazed and Confused” inizia nell’agosto 1976 proprio durante un concerto del tour americano degli Yardbirds, di cui al tempo faceva parte anche Page. Ad aprire il loro concerto al Village Theater del Greenwich Village a New York c’era Jake Holmes che suonò “Dazed and Confused”, già pubblicata nel suo album di debutto “The Above Ground Sound” nel giugno 1967.

Eravamo in scaletta con gli Yardbirds. Abbiamo suonato e abbiamo spaccato con quella canzone, è stato lì che Jimmy Page l’ha ascoltata. Da quello che ho ricostruito dagli Yardbirds, Page ha mandato qualcuno a prendere il mio album. Ha fatto un ottimo lavoro, ma sicuramente mi ha fregato.

Jake Holmes nel documentario “Lost Rockers”

Page rimase evidentemente molto colpito, ispirato, da quella canzone e ne fece subito una sua versione intitolata “I’m confused” che portò live con gli Yardbirds in diverse occasioni. Una versione che si distingue dall’originale per l’alternanza tra lunghe divagazioni strumentali e dinamiche riprese del tema principale.

Yardbirds – “I’m confused” (live in 1968)

Quando gli Yardbirds si sciolsero, nel 1968, Jimmy Page modificò ulteriormente il testo e la struttura del pezzo, lo intitolò “Dazed and Confused” e fu pubblicato nell’album di debutto dei Led Zeppelin il 12 gennaio 1969. Il brano è reso celebre dalle incursioni psichedeliche dall’assolo di chitarra suonata con l’archetto di violino, una lunga e furiosa sezione strumentale che dal vivo poteva durare anche più di mezzora.

La versione dei Led Zeppelin non è stata attribuita a Jake Holmes, in quanto Page ha ritenuto di aver modificato e stravolto a tal punto il brano da non incorrere ad accuse di plagio. Quando il disco uscì Holmes non intraprese nessuna azione legale, pare però che abbia spedito ai Led una lettera in cui diceva: «Capisco, è un tentativo di collaborazione, ma penso che dovreste almeno ammettere che sono l’autore e pagarmi i diritti».  

La lettera non ricevette risposta e la discussione finì lì, salvo riprendere a sorpresa molti anni dopo. Alla fine, Jake Holmes ha intentato causa ai Led Zeppelin e Jimmy Page nel 2010 per violazione dei diritti di copyright. La causa finì con un accordo tra i due e il caso fu archiviato il 17 gennaio 2012 e il live dei Led Zeppelin “Celebration Day” del 2012 accredita la canzone a “Jimmy Page, inspired by Jake Holmes”.

Ispirazione o plagio? Giudicate voi:

Jake Holmes – “Dazed and Confused”
Led Zeppelin – “Dazed And Confused” (live 1969)
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Because the Night: il regalo di Bruce Spingsteen a Patti Smith

Per il #disCover della settimana vado a scomodare una leggenda del Rock. Leggenda lei: Patti Smith; leggendario il pezzo: “Because the Night”. Uno dei più grandi successi della “sacerdotessa” del rock. Cantautrice, poetessa, amata e discussa, idealista e potente, Patti Smith è un vero e proprio mito che ha segnato la storia del Rock. Con la sua voce febbrile e un carisma potente ha superato generazioni fino a diventare un’icona vivente.

I suoi primi dischi hanno gettato le basi della nascente new wave, proiettati verso avanguardia, improvvisazioni jazz e con una solida base nel rock’n’roll. La storia di “Because the Night” comincia qui, dopo quel concerto del 23 gennaio 1977 in Florida dove cadde dal palco e si fratturò due vertebre. Iniziò un inferno che finì un anno dopo, il 3 marzo 1978, con l’uscita dell’album “Easter” (Pasqua, la Resurrezione), preceduto il giorno prima dall’uscita del singolo “Because the Night”.

Patti Smith – “Because the Night” (live 1978)


“Easter” è un disco che abbraccia il rock’n’roll con lo stile unico ed elegante di Patti Smith. Un disco, oggi storico, che unisce Rock e Poesia; ma i produttori volevano anche qualcosa di diverso, più radiofonico, il classico singolo con cui lanciare l’album. Fu un caso: accanto allo studio in cui registrava Patti Smith, stava registrando anche un giovane Bruce Springsteen quello che poi sarà “Darkness of the Edge of Town” (1978).

Il produttore era lo stesso: Jimmy Iovine. Springsteen aveva scritto un paio di canzoni per Patti Smith, in particolare ce n’era una di cui aveva composto la musica e mancava il testo, tranne il ritornello “Because the night belongs to lover” che il futuro “Boss” in quella demo canticchiava sussurrando. Il pezzo, narra la leggenda, non aveva posto nell’album di Springtseen, Iovine intuì subito il potenziale e consegnò la cassetta a Patti Smith.

La Smith di prima battuta si rifiutò addirittura di ascoltarlo, non voleva che qualcuno le dicesse cosa mettere in un suo disco.

Ogni giorno Jimmy mi chiamava e mi chiedeva: “Hai ascoltato la canzone” e io “Non ancora, lo farò”. E allora mi chiamava di notte. “Cosa stai facendo?” “Niente, sto scrivendo” “Hai ascoltato la canzone? Ascoltala!” “Lo farò, lo farò”.

Patti Smith

Fu proprio una notte a cambiare il destino di “Because the Night”. Una notte in cui Patti Smith aspettava una telefonata, che sembrava non arrivare mai, del suo amore allora segreto Fred Smith, il chitarrista degli MC5, che diventerà poi suo marito e padre dei suoi figli.

Bruce Springsteen – “Because the Night” (live 1978)


«Quella sera avevo un appuntamento telefonico con Fred
racconta la Smith – Mi avrebbe dovuto chiamare alle 19.30, non vedevo l’ora di ricevere le sue telefonate più di ogni altra cosa al mondo. Non c’era nulla che potesse cancellare la mia telefonata con Fred. Le 19.30 passarono, immaginavo fosse successo qualcosa dato che non aveva chiamato… Il tempo passava e io ero fuori di me. Non riuscivo a concentrarmi. Guardandomi attorno notai la cassetta, era lì. La ricordo ancora. Era una normale casetta. Ho pensato: “Ok, la ascolto”.

Ho preso il mio piccolo lettore portatile, l’ho messa dentro e ricordo che la guardavo mentre iniziava a girare, aspettando che il telefono suonasse… era in La, la mia tonalità; un inno; grande ritmo. L’ho ascoltata, me lo ricordo, in piedi da sola. Ci sono alcune cose del mio passato che non riesco a ricordare, ma questa la ricordo secondo per secondo. Stavo lì, ho scosso la testa e penso di aver detto ad alta voce: “Questa è una dannata canzone di successo“.

Fred non mi chiamò almeno fino a mezzanotte, ma a mezzanotte avevo già scritto tutto il testo. Tutto il testo. Era fatto. Di solito lavoro per mesi sul testo di una canzone, solo molto raramente le finisco in una notte. È buffo che si intitoli proprio “Because the Night”».

Have I doubt when I’m alone
Love is a ring, the telephone
Love is an angel disguised as lust
Here in our bed until the morning comes

Come on now try and understand
The way I feel under your command
Take my hand as the sun descends
They can’t touch you now
Can’t touch you now, can’t touch you now

da “Because the Night”

Una dichiarazione d’amore che sarà il suo più grande successo, di cui all’epoca sì pentì definendolo “una merda commerciale”. Forse per allontanarsi dal tritacarne mediatico del successo, per non diventare un prodotto di consumo e rischiare di trasformarsi in uno dei tanti artisti usa e getta.

Patti Smith: «Era un dilemma morale per me. Ho pensato: lui mi ha dato una canzone che diventerà molto famosa, quindi la mia prima canzone famosa sarà scritta da qualcun altro – o qualcuno che non è nella mia band. È giusto?» .

Patti Smith e Bruce Springsteen eseguirono insieme la leggendaria “Because the Night” sul palco della Rock And Roll Hall Of Fame nel 2005. Ad accompagnarli una band d’eccezione: gli U2.



“Because the Night” è l’unione di due grandi artisti: Bruce Springsteen e Patti Smith, un’unione di musica e parole. Una fusione che ha creato un successo immortale, un inno del Rock.

Springsteen ha dichiarato nel 2010: «Era una canzone d’amore e in realtà non ne stavo scrivendo in quel momento. Quella canzone è la grande canzone mancante di “Darkness On The Edge of Town”. Non avrei mai potuto finirla bene come lei. Patti era nel mezzo della sua relazione con Fred ‘Sonic’ Smith e l’ha scritta e cantata in un modo che è stato semplicemente meraviglioso».

Patti Smiht: «Questa canzone mi ha seguita. Non posso cantarla senza pensare agli anni ’70. Vedo una vita intera in una canzone. Ho incontrato Fred nel ’76. Molti dei ricordi della mia vita, le mie speranze, i miei sogni sono legati a quell’incontro e sono in qualche modo legati a questo pezzo.  È una canzone che attraversa decenni. Non è un pezzo che facevo una volta, è una canzone che sembra viva ogni volta che la canto».




Nota: i virgolettati di Patti Smith sono presi da un’intervista rilasciata a Billboard che potete leggere integralmente qui.

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Come trasformare un dolce sogno in un incubo

marilyn manson smells like children cover album


È la settimana di Halloween, il momento dell’anno in cui l’horror è protagonista e tutto sembra assumere tinte oscure. Può succedere anche alla musica di cambiare d’abito per l’occasione? Un esempio è il caso della famosa cover del brano “Sweet Dreams (Are Made of This)” degli Eurythmics realizzata da Marilyn Manson, una versione da incubo il cui videoclip tra l’altro è stato definito il più spaventoso di sempre.

“Sweet dreams are made of this, who am I to disagree?” è l’incipit di una delle canzoni più cantante di sempre. Il successo del duo musicale Eurythmics, composto da Dave Stewart ed Annie Lennox. Era il 1983, il brano divenne subito una hit mondiale e fu il momento più alto della loro carriera. Un sogno agrodolce che nasce da una storia travagliata.

Eurythmics – “Sweet Dreams (Are Made of This)”


Annie Lennox e Dave Stewart hanno recentemente raccontato la genesi del brano in una lunga intervista al The Guardian. La Lennox spiega come l’abbiano composta in un momento molto buio della loro storia, erano indebitati e sul punto di sciogliersi: «Mi sentivo come se fossimo in un sogno e che qualunque cosa stessimo inseguendo non sarebbe mai successa».

Il brano racconta lo stato d’animo di quei momenti, senza speranza. Con una svolta positiva – data da Stewart in fase di composizione – nella sezione centrale “Hold your head up, moving on” : un incitamento ad essere forti ed andare avanti, sempre e comunque. Come forte è stata l’immagine voluta dalla Lennox nel video di lancio, un look iconico che la vede in abiti da uomo e con un cortissimo taglio di capelli: «Stavo cercando di essere l’opposto del cliché della cantante. Volevo essere forte come un uomo».

C’è molta storia e molto vissuto tra le note e le parole di questa canzone, spesso travisata. Secondo un sondaggio pubblicato dalla BBC è la canzone più fraintesa del British Pop: quasi un terzo delle 1.350 persone intervistate credeva che Annie Lennox cantasse “Sweet dreams are made of CHEESE”! Si può arrivare ad un assurdo sogno fatto di “formaggio” come ad un lato più cupo che è stato spesso travisato e mal interpretato:

A causa del verso “Some of them want to use you / some of them want to be abused” (Alcuni vogliono usarti / alcuni vogliono essere maltrattati) la gente pensa che il brano tratti di sesso o sadomasochismo e non è affatto così.

Annie Lennox

Proprio su questo equivoco gioca tutta la reinterpretazione di Marilyn Manson nella celebre cover del 1995. La sua “Sweet Dreams” è l’incubo gotico del “demonio” che ha scandalizzato l’opinione pubblica degli anni Novanta. Un personaggio emblematico o un buffone? Anticristo o superstar? Innegabile che la massima “bene o male purché se ne parli” con lui abbia funzionato benissimo.

“Sweet Dreams” di Manson è l’unico singolo dell’album “Smells Like Children”, un disco disturbante, ipnotico, ossessivo, inquietante. E così è diventata la canzone degli Eurythmics le cui sonorità sono rese nettamente più cupe da un arrangiamento dark/metal, chitarre distorte e un cantato che sfocia in ruggiti disumani. Anche il ritmo è stato molto rallentato e il testo in parte modificato. Il verso “I want to use you and abuse you / I want to know what’s inside you” (Voglio usarti e abusare di te / Voglio sapere cosa c’è dentro di te) non è presente nell’originale degli Eurythmics, e c’è chi l’ha descritto come la dichiarazione d’amore più spaventosa della storia del rock.

Marilyn Manson – “Sweet Dreams (Are Made of This)”


Tutta l’interpretazione data da Manson gioca nel portare all’estremo quel sadomasochismo che però non è presente nelle intenzioni di Lennox e Stewart. Un sogno che diventa un vero incubo anche nel famoso videoclip dove Marilyn Manson si contorce come un demone, sembra quasi un animale, anzi cavalca un maiale. Le immagini sono volutamente distorte e sfuocate, come la realtà distorta e sfuocata che raccontano. Non a caso nel 2010 la rivista statunitense Billboard l’ha definito il più spaventoso videoclip mai realizzato.

Ognuno ha i suoi sogni e i suoi desideri, “who am I to disagree?”. Per i più fortunati si possono realizzare due volte, anche a distanza di anni, tornando al successo grazie ad una cover distorta:

“Sweet Dreams” non ha nulla a che fare con il sadomasochismo, cosa che la gente ha pensato, ma se lo vuole pensare, va bene. Marilyn Manson l’ha portato all’estremo e siamo molto contenti che l’abbia fatto.

Annie Lennox

Voi quale delle due preferite: dolcetto o scherzetto?

Se non riuscite a scegliere, vi lascio una versione che le riproduce tutte e due insieme, una traccia sopra l’altra. C’è tutto, manca solo il formaggio!

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It’s Oh So Quiet, dall’Europa del Dopoguerra all’Islanda di Björk

bjork videoclip it's oh so quiet


Eclettica, riservata, enigmatica. Vera e propria icona dell’Islanda e del mondo dell’arte, Björk è riuscita a coniugare sperimentazione musicale d’avanguardia e ricerca estetica, portandole sotto i riflettori della scena Pop internazionale. Nella sua carriera ha venduto 40 milioni di dischi, ha vinto 4 BRIT Award, 4 MTV Video Music Award, 13 nomination ai Grammy, e la Palma d’Oro come miglior attrice al Festival di Cannes del 2000 per la sua interpretazione in “Dancer in the Dark”. Björk è un’artista totale.

Per chi non è un suo fan, c’è una canzone a cui la si collega immediatamente: “It’s Oh So Quiet” il brano con cui nel 1995 raggiunse il successo mainstream. Una divertente canzone d’antico sapore swing, un’atmosfera dolce e cristallina che esplode in mille pezzi all’irrompere dell’isteria giocosa del ritornello. D’altronde, canta Björk, è tutto così sereno e tranquillo fin quando… non ci si si innamora!

Björk – “It’s Oh So Quiet”

Successo dovuto in parte anche al videoclip diretto da Spike Jonze, un piccolo capolavoro di virtuosismo visivo. Un omaggio ai musical di Broadway che vede Björk protagonista di un’ottima prova d’attrice e ballerina (c’è anche una parte in tip-tap!) nonostante il giorno delle riprese fosse influenzata e con un forte mal di gola che le permetteva solo di sussurrare in playback. Il videoclip nel 1996 ha ricevuto sei nomination agli MTV Video Music Awards, vincendo per miglior coreografia; e si è piazzato al secondo posto dei Grammy Award come Best Music Video – Short Form dietro all’inarrivabile “Scream” di Michael Jackson e sua sorella Janet.

Forse era tutto troppo mainstream per lei o, con maggior probabilità, dispiaciuta per il fatto di aver raggiunto questo grande successo proprio con un brano di cui non era autrice, arrivò quasi a rinnegarlo escludendolo dal suo “Greatest Hits” del 2002. Non l’avevo ancora detto? Sì, “It’s Oh So Quiet” è una cover!

In realtà è stato tutto un gioco. Era una canzone che Guy Sigsworth ascoltava sempre nel bus quando eravamo in tour. Da allora quasi mi pento di averla fatta, perché ho sempre voluto dare più importanza al creare nuova musica. C’è così tanta gente che continua ad incidere vecchie canzoni e nuove band che fanno vecchia musica.

Per lasciare un segno in questo mondo bisognerebbe avere il coraggio di andare avanti e inventare qualcosa di nuovo ed è ironico che proprio “It’s Oh So Quiet” sia diventata la mia canzone di maggior successo. In ogni caso la cosa migliore è stata il video

Björk

La dolce e scoppiettante melodia jazz di “It’s Oh So Quiet” in realtà risale al tempo del Dopoguerra, in Austria. È stata incisa per la prima volta nel 1948 con il titolo “Und jetzt ist es still” (ora è tutto tranquillo) dal cantante austriaco Harry “Horst” Winter ed è stata composta dall’austriaco Hans Lang con testo dell’autore tedesco Erich Meder.

Harry “Horst” Winter“Und jetzt ist es still” (1948)

Un simpatico valzer di un’epoca e di un mondo lontano che non è passato inosservato e fu ripreso poco dopo nel 1949 dall’attrice francese Ginette Garcin insieme all’Orchestra Jacques Hélian con il titolo di “Tout est tranquille”.

Ginette Garcin“Tout est tranquille” (1949)


Prima di arrivare alla cover di Björk manca ancora un importante passaggio.

Fin qui era ancora quel del simpatico valzer viennese del Dopoguerra. La svolta principale è stata data dalla versione dell’attrice e cantante americana Betty Hutton con arrangiamento del compositore e arrangiatore italiano (naturalizzato statunitense) Pete Rugolo. “It’s Oh So Quiet” (tradotta in lingua inglese da Bert Reisfeld) è stata pubblicata nel 1951 come lato B del suo singolo “Murder, He Says”.

Betty Hutton“It’s Oh So Quiet” (1951)


Quanta storia e quanta strada ci può essere dietro ad una canzone! Questo pezzo grazie a Björk è risorto a nuova vita finendo anche nei contesti più strampalati come la pubblicità della Toyota o del Kinder Colazione Più. Musica e pubblicità: un argomento interessante, di cui vi parlerò sicuramente.

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