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Jimi Hendrix: tutto iniziò con la cover di “Hey Joe”

“Hey Joe” è la canzone da cui è iniziato tutto: ha permesso a Jimi Hendrix di diventare “Jimi Hendrix” e passare alla storia come uno dei migliori chitarristi di tutti i tempi. Jimi Hendrix è un nome leggendario che tutti conosciamo anche senza magari sapere bene perché sia stato uno dei maggiori innovatori nel modo di suonare la chitarra elettrica.

Tutto iniziò a metà anni ’60 in America, Hendrix a quel tempo si faceva chiamare Jimmy James e suonava la chitarra nei “Jimmy James and the Blue Flames”. Una sera si esibirono al locale “Cafe Wha?” nel Greenwich Village di New York e tra i pezzi in scaletta era stata inserita anche una cover: “Hey Joe”. Ad ascoltarli c’era Chas Chandler, al tempo bassista degli Animals, che rimase letteralmente folgorato dalla bravura e dal talento di quel giovane chitarrista mancino. Chandler la sera stessa chiese ad Hendrix di diventare il suo manager e lo portò a Londra; Noel Redding e Mitch Mitchell entrarono nella band e diedero vita alla “Jimi Hendrix Experience”.

Il singolo scelto per il debutto fu proprio “Hey Joe” (inizialmente rifiutato dal direttore artistico della Decco che non colse il potenziale del brano) pubblicato nel dicembre 1966 dalla Polydor Records. A gennaio 1967 il 45 giri “Hey Joe – Stone Free” era tra i dischi più venduti della classifica britannica e fece da apripista al primo album di Jimi Hendrix “Are You Experienced” considerato una delle pietre miliari del Rock.

La lungimiranza di Chas Chandler diede vita all’inarrestabile ascesa di Jimi Hendrix nell’olimpo del Rock, grazie alla leggendaria versione di quella “Hey Joe” suonata al Greenwich Village sostituendo la chitarra acustica dell’originale con la chitarra elettrica.

Jimi Hendrix – “Hey Joe” (live – Monterey Pop Festival, 1967)


“Hey Joe” di Jimi Hendrix è la cover di un brano blues inizialmente etichettato come “traditional” cioè musica della tradizione non soggetta al diritto d’autore. Venne inizialmente attribuita a Dino Valenti (cantautore statunitense meglio conosciuto come Chet Powers) poi rivendicata e accreditata nel 1962 a Billy Roberts, musicista americano che agli inizi degli anni 1960 si recò a New York stabilendosi nel Greenwich Village dove suonava per le strade e nei caffè.

Billy Roberts a sua volta prese spunto da una ballata popolare di inizio Novecento intitolata “Little Sadie” che racconta di un uomo in fuga dopo aver ucciso la propria donna, esattamente come in “Hey Joe”; inoltre gli avvenimenti narrati si svolgono nella Carolina del Sud da cui era originario Roberts. Un’altra fonte di ispirazione è un pezzo country di Carl Smith del 1953, intitolato proprio “Hey Joe”, in cui invece questo Joe era un amico del cantante al quale voleva rubare la moglie. Ultimo probabile spunto di Roberts è “Baby, Please Don’t Go to Town” (1955) della sua fidanzata dell’epoca Niela Miller che presenta una progressione di accordi quasi identica.

Billy Roberts – “Hey Joe” (1962)


La prima esecuzione dal vivo di Jimi Hendrix di “Hey Joe” fu al Monterey Pop Festival nel 1967 ed è stata anche la prima volta che venne presentata live ad un grande pubblico. Sarà anche la canzone di chiusura dello storico festival di Woodstock. Leggenda nella leggenda, si dice che “Hey Joe” sia il brano di cui sono state pubblicate più cover al mondo. Dopo Hendrix lo hanno rifatto un po’ tutti: dai Deep Purple agli Offspring, Björk, Cher… e anche Franco Battiato!

Non poteva rimanerne indifferente nemmeno la scena Beat italiana degli anni ’60 che così tanto si ispirava ai successi inglesi e americani. A farne una cover nel 1967 fu Giancarlo Martelli, in arte Martò, uno dei pionieri della scena beat di Bologna che affidò la traduzione del testo a Francesco Guccini, uno dei padri della canzone d’autore italiana impegnata.

Martò (testo di Francesco Guccini) – “Hey Joe” (1967)
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Surfin’ U.S.A.: Beach Boys vs. Chuck Berry

Siamo nella California anni ’60, gli anni in cui nacque un sottogenere del Rock ispirato alla moda che spopolava tra i ragazzi di allora, il surf. La Surf Music a differenza del Rock ‘n’ Roll, non aveva finalità politiche o di protesta sociale, era una musica divertente per gli adolescenti spensierati, sportivi, che amavano il sole e le spiagge della California.

Il 1963 è l’anno del grande successo mondiale dei Beach Boys che con la loro “Surfin’ U.S.A.” balzarono in vetta alle classifiche risultando alla fine dell’anno il singolo più venduto negli Stati Uniti.

Beach Boys – “Surfin’ U.S.A.” (1963)


Il testo fu scritto dal cantante Brian Wilson, parla ovviamente di estate, spiagge e cita i luoghi più belli dove fare surf, suggeriti dal fratello della sua ragazza; pare infatti che i Beach Boys in realtà non fossero dei surfisti, tranne il batterista Dennis Wilson. Il risultato è un vero inno alle coste del Pacifico: Del Mar, Ventura County, Santa Cruz, posti fantastici che ogni surfista ancora oggi vorrebbe visitare, e ancora Waimea Bay (Hawaii) e Narabeen (Australia).

Stavo canticchiando “Sweet Little Sixsteen” e mi piaceva un sacco. Così ho pensato di provare a mettere un testo Surf su quella melodia. L’idea era più o meno “Loro fanno questo in questa città e quest’altro in un’altra” come un twist di Chubby Checker, “Twistin U.S.A.”. Così ho pensato di chiamarla “Surfin’ U.S.A.”. Al tempo stavo uscendo con una ragazza che si chiamava Judy Bowles e suo fratello, Jimmy, era un surfista che conosceva a menadito tutti i posti dove si praticava il surf. Così gli ho detto: “Voglio fare una canzone citando tutti i posti dove fare surf” e lui mi fece una lista!

Brian Wilson (tratto dal libro “Becoming the Beach Boys, 1961-1963” di James B. Murphy)

La scanzonata e divertente “Surfin’ U.S.A.” è stata al centro di un grosso scandalo: Brian Wilson ha davvero preso molta “ispirazione” dalla canzone “Sweet Little Sixsteen” (1958) di Chuck Berry, il padre del Rock ‘n’ Roll (vi dico solo: “Johnny B. Goode” del 1959), che sfociò in una clamorosa disputa legale.

Brian Wilson dei Beach Boys cercò di difendersi dicendo che il suo voleva essere un tributo a Chuck Berry e non un plagio, peccando però di superficialità non chiedendogli il permesso di rielaborare la sua canzone. Il manager dei Beach Boys e il padre di Brian Wilson accettarono di cedere i diritti di distribuzione ad Arc Music, cioè a Chuck Berry. Il nome del chitarrista poi apparirà nella lista degli autori a partire dal 1966.

L’incidente di “Surfin U.S.A.” è ricordato come il primo grande caso di plagio della storia del Rock, ora giudicate voi:

Chuck Berry – “Sweet Little Sixsteen” (1958)
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Alta Marea: la cover di Venditti e il debutto di Angelina Jolie

Era il 1991 quando uscì l’album “Benvenuti in Paradiso” di Antonello Venditti, il suo più grande successo commerciale, ad oggi ancora il più venduto dell’intera discografia del cantautore romano. Il singolo di lancio e brano traino del successo del disco era la famosissima “Alta marea”.

Non c’è bisogno di ulteriori presentazioni, Venditti e “Alta marea” sono dei pilastri della canzone italiana. Forse però non è a tutti noto che “Alta marea” in realtà sia una cover. La voce di Antonello Venditti in “Autostrada deserta, alla confine del mare…” è così iconica che sembra assurdo pensare che la versione originale di questa canzone si intitola “Don’t dream it’s over” ed è un pezzo della band australiana Crowded House datato 1986.

Crowded House – “Don’t dream it’s over” (1986)


I Crowded House sono semi sconosciuti nel mondo, ma famosissimi in Australia. Hanno raggiunto la fama mondiale con il terzo singolo del loro primo omonimo album pubblicato nel 1986, la ballata pop “Don’t dream it’s over” scritta dal cantante Neil Finn. Resterà il loro unico grande successo internazionale e vincerà gli MTV Video Awards del 1987 nella categoria “Best new artist of the year”.

La versione di Antonello Venditti “Alta marea” mantiene la musica di Neil Finn e ne riscrive il testo. Venditti racconta un forte legame d’amore, il senso di dipendenza o appartenenza che si può provare e la forte paura di perdere la persona amata. Ennesimo successo di una carriera già consolidata, tra i capolavori della musica italiana, “Alta marea” spopola in radio e televisione anche grazie al videoclip girato da Stefano Salvati, regista di video musicali, spot, programmi tv con i pià grandi protagonisti della musica italiane e internazionale.

Girato a Los Angeles, il videoclip di “Alta marea” ha fatto storia: fu il debutto di una sconosciuta e sedicenne Angelina Jolie, scelta ad un casting tra oltre 200 ragazze, che in seguito diventerà una delle attrici più famose e ammirate al mondo.

Vista dal vivo era come tante altre, anzi era anche un po’ bassina (non arrivava al metro e 70), ma davanti alla cinepresa era favolosa! La scelsi per il ruolo da protagonista… si chiamava Angelina Jolie ed “Alta marea” era il suo primo lavoro.

Stefano Salvati
Antonello Venditti – “Alta marea” (1991)


Ultima curiosità: tra i musicisti che hanno collaborato al progetto del disco “Benvenuti in paradiso” figura anche l’attore Carlo Verdone nelle vesti di batterista e percussionista, e anche il maestro Demo Morselli alla tromba ed al flicorno.

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Piece of My Heart: Erma Franklin e la cover di Janis Joplin

Take it!
Take another little piece of my heart now, baby
Break it!
Break another little bit of my heart now, darling

Per chi ha ascoltato questa canzone almeno una volta, è impossibile non leggere questi versi senza pensare alla voce di una delle rockstar più famose e amate di tutti i tempi. “Piece of my heart” è uno dei brani più conosciuti della storia del Rock e lei è la leggendaria Janis Joplin.

Nata in una piccola città del Texas è diventata la più grande cantante blues del XX secolo, almeno tra le cantanti bianche. Anticonformista, ribelle, una donna apparentemente forte e determinata, ma in realtà molto sola, ha vissuto un’esistenza tormentata tra alcool e droghe, finita a soli 27 anni nell’ottobre del 1970.

La svolta arrivò quando insieme al suo gruppo i Big Brother and the Holding Company si esibì in una performance indimenticabile al Monterey Pop Festival nel giugno del 1967 e con il successo mondiale dell’album “Cheap Thrills” uscito nel 1968 e volato al primo posto nelle classifiche Billboard restandoci per otto settimane con più di un milione di copie vendute. “Cheap Thrills” conteneva tre cover: “Summertime” di George Gershwin, “Balld and Chain” di Big Mama Thornton e il singolo “Piece of My Heart”.

La storia di “Piece of My Heart” inizia prima di Janis Joplin e si intreccia con la storia di un’altra cantante che ha passato la vita all’ombra di sua sorella Aretha: Erma Franklin. “Piece of My Heart” è stata scritta da Jordan “Jerry” Ragovoy e Bert Berns e pubblicata per la prima volta nell’agosto del 1967. Anche se Bert Berns avrebbe voluto che a registrarla fosse Van Morrison, artista che all’epoca stava producendo, ma rifiutò l’offerta per concentrarsi sulle sue canzoni che stava incidendo.

Erma Franklin – “Piece of My Heart” (1967)


La voce black e calda di Erma ne diede una bellissima interpretazione Soul, il brano arrivò nelle classifiche R&B, ma non ci restò molto. Fu poi eclissato dall’interpretazione che ne fece Janis Joplin ed Erma Franklin ebbe il suo meritato successo solo nel 1992 quando la sua versione di “Piece of My Heart” fu scelto come colonna sonora di una fortunata pubblicità dei jeans Levi’s che potete vedere cliccando qui.

In un’intervista Erma Franklin dichiarò che la prima volta che ascoltò la versione di Janis Joplin non la riconobbe subito, era molto diversa sia come arrangiamento che come interpretazione. Non era più un caldo dolore d’amore, ma un grido di passione e rabbia scagliato al cielo da un urlo quasi primordiale. Nella versione di Janis Joplin “Piece of My Heart” diventa una canzone in cui esplode la sua furia, la sua energia, un graffio continuo dall’inizio alla fine che traduce in musica la sua sofferenza.

“Piece of My Heart” è l’anima di Janis Joplin messa a nudo in 4 minuti di canzone. È uno dei brani centrali della fine degli anni ’60 e dell’epoca Hippy che poi Janis canterà da solista in una memorabile interpretazione a Woodstock nel 1969. Un brano che continua a brillare ancora oggi.

Janis Joplin – “Piece of My Heart” (1968)
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Vivo per… lei: da Sanremo con gli O.R.O. al successo internazionale di Bocelli e Giorgia

Siamo nella fatidica settimana di Sanremo, il momento dell’anno in cui tutta Italia parla di Musica. O almeno così dovrebbe essere, al netto delle classiche e infinite polemiche costruite o meno a tavolino. Sul palco dell’Ariston sono nate tante bellissime canzoni tra cui una che è diventata una dichiarazione d’amore per colei che dovrebbe essere la vera protagonista assoluta di questa kermesse: la Musica.

Vivo per lei da quando sai
la prima volta l’ho incontrata,
non mi ricordo come ma
mi è entrata dentro e c’è restata.
Vivo per lei perché mi fa
vibrare forte l’anima,
vivo per lei e non è un peso.

“Vivo per lei” quest’anno copie 25 anni ed è già un classico della canzone italiana, uno standard italiano moderno conosciuto nel mondo per l’indovinatissimo duetto tra Andrea Bocelli e Giorgia. In pochi però conosco la sua storia che è nata proprio sul palco di Sanremo nel 1995.

“Vivo per…” è la prima traccia dell’album di debutto degli O.R.O. (acronimo per Onde Radio Ovest) pubblicato nel 1995 dalla Sugar Music di Caterina Caselli. Gruppo nato dall’unione di cinque musicisti (Mauro Mengali, Valerio Zelli, Mario Manzani, Alfredo Golino e Cesare Chiodo) che dopo anni di esperienza e collaborazione con i nomi più importanti della musica italiana decisero di fondare un gruppo.

O.R.O. – “Vivo per…” (Sanremo Giovani 1995)


Con “Vivo per…” gli O.R.O. nel 1995 partecipano alla manifestazione “Un disco per l’estate” senza ottenere un particolare successo, ma andrà meglio qualche mese dopo quando sempre con questa canzone vincono “Sanremo Giovani” ottenendo di diritto la partecipazione al Festival l’anno seguente.

È il brano che li consacra al successo e nella versione originale degli O.R.O. era una canzone d’amore dedicata ad una donna; divenne la “Vivo per lei” che conosciamo solo dopo e come spesso succede grazie ad una serie di fortunate coincidenze. Nel 1995 Andrea Bocelli stava incidendo il suo secondo album, mancavano ancora alcune canzoni per completarlo e il suo produttore Michele Torpedine pensò al singolo degli O.R.O. e propose di farne una cover.

Torpedine volle cambiare il testo per aggiungere originalità al pezzo e si affidò a Gatto Pancieri che in quel momento stava scrivendo le canzoni per l’album “Come Thelma e Louise” di Giorgia. Fu a Pancieri che venne l’idea di cambiare la prospettiva della canzone: non una dedica d’amore ad una donna, ma alla Musica!

Ho completato il testo in macchina, venendo a Milano da Bologna, dove stavo lavorando con Giorgia C’era una nebbia fortissima, e mentre guidavo ho buttato giù le parole sul registratore che porto sempre con me. È una canzone nata di getto: a volte capita che ci siano dei parti così istintivi, che di solito portano a una grande naturalezza nel risultato. Bocelli ha sentito la canzone e si è entusiasmato.

Gatto Pancieri

Nasce così questa bellissima poesia d’amore che ha avuto la fortuna di essere interpretata da due splendide voci della musica italiana ancora una volta grazie al caso e non ad una premeditata operazione commerciale come si potrebbe pensare. Mentre Bocelli era in studio di registrazione a provare il pezzo, passò di lì Giorgia (Michele Torpedine era il produttore di Bocelli e anche di Giorgia) che si innamorò del brano e così venne l’idea di trasformarla in un duetto.

Andrea Bocelli e Giorgia – “Vivo per lei” (1995)


“Vivo per lei” fu inserita nell’album “Bocelli” insieme alla celeberrima “Con te partirò”, uno dei maggiori successi internazionali della musica italiana che lanciò il talento di Bocelli nel mondo e con cui il cantante era arrivato al quarto posto al Festival di Sanremo 1995 (il festival fu vinto da Giorgia con “Come saprei”).

“Vivo per lei” visse per un po’ all’ombra del grande successo di “Con te partirò”, ma pian piano entrò nel repertorio di molti musicisti di piano bar e nei locali di karaoke. La sua popolarità così aumentò pian piano e scoppiò definitivamente grazie al lancio internazionale della raccolta “Romanza” grazie a cui Bocelli diventerà uno dei cantanti italiani più famosi al mondo.  

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Sognando la California: dalla New York dei Mamas&Papas a Milano con i Dik Dik

È una fredda e grigia giornata d’inverno a New York e se sei nato sotto il sole della California la nostalgia di casa deve essere molta. Sei una bellissima ragazza, novella sposa, trasferita nella Grande Mela con il marito che scrive canzoni e sta cercando di farsi una strada nell’ambiente musicale. Lui di notte non riesce a dormire, cammina avanti e dietro alla ricerca di un’ispirazione e una mattina ti sveglia, l’ispirazione è arrivata e ti canta i primi versi di un pezzo che sembra proprio funzionare:

“All the leaves are brown and the sky is grey
I’ve been for a walk on a winter’s day
I’d be safe and warm if I was in L.A.”

Era l’inverno nel 1963, lei è Michelle Gilliam e lui è John Phillips. Al tempo il loro gruppo si chiamava “The New Journeymen”, dopo poco conosceranno Denny Doherty e Cass Elliott con cui formeranno i The Mamas & The Papas. “California Dreamin’” è stato il loro primo grande successo ed è nata proprio così.

The Mamas & The Papas – “California Dreamin’” (1966)


La prima pubblicazione di “California Dreamin’” però non è stata quella dei The Mamas & The Papas, ma fu cantata da Barry McGuire, anche se con i loro cori e la chitarra di John Phillips. McGuire aveva presentato il gruppo ad un discografico famoso, Lou Adler della Dunhill Records, e fu il loro modo per ringraziarlo.

“California Dreamin’” fu pubblicata per la prima volta all’inizio del 1965 nell’album di Barry McGuire “This Precious Time”, ma la voce grave di McGuire non rendeva giustizia al pezzo che non fu notato e non ebbe successo. I The Mamas & The Papas se la ripresero e la pubblicarono come singolo per la Dunhill Records l’8 dicembre 1965 e fu inserita anche nel loro album di debutto “If You Can Believe Your Eyes and Ears” nel febbraio del 1966.

Barry McGuire – “California Dreamin'” (1965)


All’inizio non fu un successo, iniziò a farsi conoscere pian piano sembra grazie ad una stazione radio di Boston che iniziò a passarla e solo dopo qualche mese negli Stati Uniti divenne “la” canzone del 1966 e i The Mamas & The Papas, con il loro look stravagante e il sound folk, diventarono tra i protagonisti del movimento Hippy di quegli anni.

La forza di “California Dreamin’” sta anche nel suo particolare arrangiamento: si tratta infatti di una delle poche canzoni Pop a contenere un assolo di flauto. John Phillips durante la registrazione del pezzo cercava qualcosa di innovativo rispetto al solito assolo di chitarra e incrociò per caso il famoso jazzista Bud Shank, flautista e sassofonista negli studi in cui stavano registrando (i Western Recorders di Hollywood, dove Beach Boys registrarono pochi mesi prima il loro “Pet Sounds”).

Shank ascoltò il pezzo e incise al primo tentativo l’assolo di flauto contralto che fu mantenuto e pubblicato. Una nuova e originale sonorità che ha aiutato a rendere “California Dreamin’” il celebre brano folk, nomade e rock che conosciamo.

“California Dreamin’” divenne famosa in tutto il mondo e lo è ancora. È stata suonata e cantata da tantissimi, usata come colonna sonora di molti film e in Italia la conosciamo come “Sognando la California” il primo grande successo dei Dik Dik.

Dik Dik – “Sognando la California” (1966)


La storia si ripete: ancora degli incontri casuali e un pezzo che porta fortuna ad una band emergente. Come è nata questa storica cover lo raccontano i Dik Dik nel loro sito ufficiale:

“Verso i primi giorni dell’estate del ’66, mentre mi aggiravo negli uffici della Ricordi, passando nei corridoi mi capitò di sentire un motivo molto coinvolgente al punto che incuriosito mi affacciai all’ufficio da dove proveniva il motivo e chiesi che canzone fosse. Mi risposero che dagli Stati Uniti erano appena arrivate le ultime novità discografiche. Terminata la canzone, sfilai il disco dalla piastra e ne lessi l’etichetta: era un gruppo vocale di cui non avevo mai sentito parlare, possedeva un insieme di voci molto interessante, lessi il nome: Mamas and Papas.

Fu un vero colpo di fulmine, la canzone fin dalle prime note era potente e accattivante, possedeva tutti i numeri per diventare un grande successo, sfilai dal giradischi il 45 giri e mi precipitai dal direttore artistico, Iller Pattacini, e gli dissi: che avevo tra le mani una vera bomba e che avrei voluto farne una versione in italiano: poi lessi, il titolo, California Dreamin’.

La cover si fece e l’adattamento italiano del testo fu scritto da Mogol e ancora oggi “Sognando la California” è uno dei brani simbolo dei Dik Dik. Fu un successo clamoroso, salì subito al secondo posto della Hit Parade di Lelio Luttazzi stabile per settimane dietro a “Strangers in the Night” di Frank Sinatra e lanciò la carriera dei Dik Dik. Erano gli anni della Beat e del boom italiano del Folk, dei Beatles e di Bob Dylan.

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Il “Blue Monday” che vi fa ballare

Da qualche anno parlando di “Blue Monday” ci si riferisce al lunedì più triste dell’anno che secondo uno studio dello psicologo Cliff Arnall, professore dell’Università di Cardiff, cade il terzo lunedì di Gennaio. Risultato di complessi calcoli tra l’estate lontana, le vacanze natalizie finite, la ripresa dell’attività lavorativa e un anno da affrontare.

Se si parla di “Blue Monday” nel mondo della musica non si può che pensare immediatamente ad un bellissimo pezzo che ha fatto la storia, lontano da queste deprimenti teorie e che sicuramente almeno una volta vi avrà fatto ballare.


“Blue Monday” è il più grande successo dei New Order che dal 1983 ha scalato le classifiche di mezzo mondo. Con oltre 3 milioni di copie vendute è diventato il singolo in 12 pollici più venduto di tutti i tempi e uno dei brani più influenti e simbolo della musica elettronica. Non male per un pezzo che nella versione originale dura 7 minuti e 23 secondi!

Siamo nell’Inghilterra anni ’80 e i New Order nascono dalle ceneri di un altro super gruppo, i Joy Division. Dopo la morte del frontman Ian Curtis, i componenti rimasti si riformarono come New Order: continuarono a mescolare post-punk ed elettronica allontanandosi dalle atmosfere più cupe e gotiche per abbracciare sonorità ballabili e diventarono uno dei più importanti gruppi di musica elettronica di sempre.

Blue Monday non è una canzone, è una sensazione, ma una volta che le persone sentono quel riff di batteria vanno fuori di testa. – Peter Hook, New Order

La storia di “Blue Monday” oggi si mescola tra mito e leggenda. In molti pensavano che il testo si riferisse alla morte di Ian Curtis, ma è stato smentito. Come è stato smentito il riferimento al conflitto per il controllo delle Isole Falkland. Potrebbe invece parlare di abuso di droghe, di una relazione conflittuale o delle persecuzioni sulle minoranze gay.

Di certo si sa che “Blue Monday” è nata dalla delusione data dal fatto che il pubblico ai concerti dei New Order non avesse mai chiesto un bis. Così pensarono a questo semplice pattern ritmato come riempitivo per permettere loro di ritornare sul palco, ma la storia si è evoluta e lo ha trasformato in una super hit.

La prima pubblicazione del singolo risale al 7 marzo 1983 ed è uscito in vinile 12 pollici dalla confezione particolarissima e costosissima. Era una perfetta riproduzione di un floppy disk 5¼” senza il nome del gruppo e nemmeno il titolo del singolo. Le informazioni erano contenute sul dorso in un codice crittografato formato da quadratini colorati che andavano decifrati con una legenda stampata sul retro dell’album “Power, Corruption & Lies”.

Tra le mille curiosità e storie che si rincorrono c’è anche un’accusa di plagio. “Blue Monday” è stato anche al centro di un forte dibattito: sembrerebbe essere una palese ripresa del brano “Gerry and the Holograms” pubblicato quattro anni prima dall’omonima band “Gerry and the Holograms” originaria di Manchester, proprio come i New Order.

Centinaia di persone mi hanno chiesto come mi sento per il fatto che i New Order si siano appropriati della nostra musica. A meno che non avessi vinto alla lotteria, non potevo permettermi di combattere una battaglia [legale]. È una situazione alla Davide contro Golia ad essere onesti. Non posso permettermi di avere un’opinione”. – John Scott, Gerry and the Holograms

Eccola qui:

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“Se telefonando” e la sirena della polizia di Marsiglia

Come creare una canzone italiana di successo? Semplice: il testo lo scrive Maurizio Costanzo con Gigho De Chiara, della musica ci pensa Ennio Morricone e poi la canta Mina. Aggiungeteci giusto quel guizzo di genialità e d’ispirazione, che può arrivare anche da una banalissima sirena della polizia di Marsiglia, e così è nata nel 1966 “Se telefonando”.

La storia di “Se telefonando” è una leggenda che si rincorre da anni, di cui recentemente ha dato conferma Maurizio Costanzo in persona durante un’intervista radiofonica. Racconta Costanzo che il pezzo è nato come sigla del programma Rai “Aria condizionata” spin-off della famosa trasmissione “Studio Uno”. De Chiara aveva lavorato con Morricone ad uno spettacolo teatrale e provò a chiedergli se volesse scriverne la musica e Morricone accettò. Così un giorno Costanzo si trovò a casa di De Chiara a lavorare sul pezzo, mentre Morricone era collegato con loro telefonicamente e qui il colpo di genio:

Morricone al telefono interveniva e diceva “Pensate alla sirena della polizia di Marsiglia”. Io ebbi la fortuna di dire la parola “telefono”, sostenendo con De Chiara che il telefono stava andando di moda in quegli anni. Nacque “Se telefonando”.

Maurizio Costanzo

Per quanto assurdo possa sembrare, lo spunto creativo di questa canzone indimenticabile nasce dal suono della sirene della polizia di Marsiglia sui cui Morricone basa la ripetizione del tema principale. Poche, semplici, note per creare un capolavoro. Come sia possibile lo spiega bene Rocco Tanica degli Elio e le Storie Tese in quest’intervista, esempio al pianoforte incluso, in cui descrive “Se telefonando” come un miracolo fatto di quattro note:


“Se telefonando” è una canzone molto difficile da eseguire vocalmente. L’eleganza e la maestria nella scrittura hanno permesso a Morricone di scrivere una strofa sola a cui segue un ritornello che insegue se stesso quasi all’infinito: un continuo crescendo musicale che riprende perfettamente l’emozione raccontata dal testo.

Chi poteva trovarsi a suo agio in questo labirinto melodico e dare la voce ad una delle canzoni pilastro della musica italiana? Maurizio Costanzo racconta come con fortuna siano riusciti a contattare Mina: si trovarono lui, De Chiara, Morricone, Mina e il suo impresario nel centro di produzione Rai di Via Teulada a Roma; Morricone si mise al pianoforte e suonò “Se telefonando”, un attimo dopo Mina chiese il testo e con una naturalezza che Costanzo racconta lasciò tutti i presenti stupiti, la cantò.

Mina chiese solo di apportare una piccola modifica al testo che nella versione originale recitava “poi nel buio la tua mano, d’improvviso sulla mia”, il verso poteva risultare ambiguo e fu cambiato con “poi nel buio le tue mani, d’improvviso sulle mie”.

Nell’estate del 1966 “Se telefonando” era in tutti i juke-box italiani. Era l’anno dei mondiali di calcio, quelli di Inghilterra- Germania 4 a 2 dopo i supplementari e sotto l’ombrellone questa breve storia d’amore consumata in una notte d’estate mette d’accordo giovani e “matusa”.

Mina – “Se telefonando” (1966)


Divenne subito un successo pubblicato nel nono album di Mina “Studio Uno 66”, la raccolta delle canzoni scritte per la quarta edizione della trasmissione televisiva “Studio Uno”, programma di varietà condotto da Mina stessa. La storia di “Se telefonando” non finisce qui, ma diviene anche un videoclip, o meglio un video pubblicitario per il Carosello, l’MTV ante litteram di quei tempi.

Mina era testimonial per la Barilla e girò diversi spot diretti dal geniale Pietro Gherardi, architetto, scenografo e costumista di Federico Fellini, vincitore di due premi Oscar per i costumi di “8 e mezzo” e “La Dolce Vita”. Gherardi ambienta le pubblicità Barilla in luoghi strani, non consueti per degli spot televisivi e fa indossare a Mina abiti molto particolari e tassativamente neri.

Il video di “Se telefonando” è stato girato sui tetti della stazione ferroviaria di Napoli ancora in costruzione. Sono immagini senza tempo, Mina è bellissima e indossa un abito meraviglioso quasi un’opera di architettura che la avvolge con delle spire a ricordare i fili del telefono.

Sarebbe solo un carosello per la pubblicità della pasta Barilla che recitava “B come buona cucina, B come Barilla”, ma la bellezza è tale da rendere questo e gli altri video di Gherardi dei mini-capolavori di stampo felliniano. Documentano l’Italia anni ’60, gli anni della ricostruzione, del boom economico, gli anni in cui l’Italia faceva sognare il mondo con il cinema, la musica e ovviamente… la pasta!

L’Archivio Storico Barilla li raccoglie tutti e potete riguardarli cliccando qui.

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Non era Corona a cantare “The Rhythm of the Night”

Per la serie “a volte ritornano” a fine 2019 è riapparso sulla scena musicale uno dei gruppi più famosi degli anni ’00 con un singolo che riprende la super hit Eurodance degli anni Novanta “The Rhythm of the Night”. Perché si sa: non si esce vivi dagli anni ’80, ma nemmeno dai ’90!

Sto parlando dei Black Eyed Peas, uno dei gruppi di maggior successo degli ultimi anni con oltre 35 milioni di album e 120 milioni di singoli venduti in tutto il mondo e ben 6 Grammy vinti. Un ritorno in grande stile con il singolo “Ritmo (Bad Boys for Life)” nato in collaborazione con la superstar del raggaeton J Balvin; è già un successo e farà parte della colonna sonora del film “Bad Boys for Life” con Will Smith e Martin Lawrence, in uscita il 23 gennaio 2020.

“Ritmo (Bad Boys for Life)” – Black Eyed Peas & J Balvin (2019)


Per chi ha vissuto gli anni Novanta, dalla prima nota di “Ritmo” è impossibile non riconoscere l’inconfondibile ritornello di “The Rhythm of the Night” di Corona, uno dei più grandi successi di quegli anni anche se reinterpretata in una veste completamente diversa.


Volevo reinterpretare “The Rhythm of the Night” di Corona dandogli un feeling minimale, futurista con sonorità afro-reggaeton. La canzone e il video rispecchiano perfettamente il nuovo immaginario che i Black Eyed Peas intendono esprimere.

Will.i.am, co-fondatore dei Black Eyed Peas,


“The Rhythm of the Night” è stato uno dei brani più famosi e rappresentativi della Eurodance anni Novanta che nel 1993 ha portato al successo internazionale il gruppo musicale dei Corona, un debutto stellare rimasto in classifica per tutti gli anni ’90 e che nel 1995 raggiunse anche l’undicesima posizione nell’ambitissima classifica americana Billboard.

“The Rhythm of the Night” – Corona (1993)


Ci sono molte curiosità tra le note di questa canzone, come il fatto che Corona fosse un progetto italiano formato dalla front-woman brasiliana Olga Maria De Souza e dal produttore Francesco Bontempi, a cui poi si sono aggiunti Francesco Conte e Paolo Dughero che prenderanno il posto di Bontempi a partire dal terzo album. A dare il volto al progetto era la bellissima modella brasiliana dalla pelle d’ebano e le lunghe treccine; ospite delle trasmissioni musicali più famose, fu anche conduttrice del Festivalbar 1996 con Amadeus e Alessia Marcuzzi.

Olga Maria De Souza però era solo il volto di Corona, in realtà la voce di “The Rhythm of the Night” era della italianissima Giovanna Bersola, in arte Jenny B, cantante italiana che ha dato la voce anche a “The Summer is Magic” un’altra super hit Eurodance del 1994. Dopo il successo di “Un attimo ancora” ottenuto insieme ai Gemelli Diversi (famosa cover di “Dammi solo un minuto” dei Pooh pubblicata nel 1998) Jenny B ha vinto il primo posto nella categoria Nuove Proposte e il Premio della Critica Mia Martini al Festival di Sanremo 2000 con la canzone “Semplice sai”. Il brano è stato anche il più votato sia dalla giuria popolare che di qualità. Jenny B non si è fermata, ma ha continuato a collaborare negli anni con diversi artisti e in trasmissioni televisive.

C’è ancora un’ultima curiosità su “The Rhythm of the Night”, in realtà è una cover! Si rifà alla strofa, non al ritornello, del brano “Save Me” del duo tedesco delle Say When!, uscito anche in Italia nel 1988 per la Full Time Record e che al tempo riscosse notevole successo sia in radio che nelle discoteche.

“Save Me” – Say When! (1987)
disCover

Due grandi classici della Disco Music, due cover cantate da Gloria Gaynor

Tra pochi giorni sarà l’ultimo dell’anno e se sarete alla festa giusta la Disco Music di certo non mancherà. E allora ci sarà una canzone che ballerete di sicuro, ma secondo me è molto probabile che la balliate in ogni caso. Facciamo una scommessa: fate partire il video e quando arriverà il ritornello starete già cantando. Pronti?

Gloria Gaynor – “Can’t take my eyes out of you” (1990)


“I looove you baaaby” …ho indovinato? Questo è davvero uno dei più grandi classici riempi-pista di sempre e lei è Gloria Gaynor, icona della Disco Music insieme a Donna Summer. La Gaynor ha pubblicato “Can’t take my eyes off you” nel 1990 e ormai siamo abituati a sentirla in questa sua famosissima versione, anche se in realtà l’originale risale al 1967 e quella della Gaynor è solo una cover. “Can’t take my eyes off you” è stata scritta da Bob Crewe e Bob Gaudio, portata al successo dal cantante statunitense Frankie Valli famoso per essere stato il frontman dei The Four Seasons.

Frankie Valli – “Can’t take my eyes out of you” (1967)


Francesco Stephen Castelluccio, in arte Frankie Valli, nato in America da genitori italiani; queste informazioni non vi diranno nulla, anche se in realtà non vi è per niente sconosciuto. La sua voce l’abbiamo sentita moltissime volte: è sua l’interpretazione del brano “Grease, la colonna sonora dell’omonimo film e musical, canzone scritta da Barry Gibb dei Bee Gees nel 1978.

Anche l’autore di “Can’t take my eyes off you”, Bob Crewe, è un nome importante: ha firmato alcune delle canzoni più note degli anni Cinquanta e Sessanta fra cui “Big Girls Don’t Cry”, “Rag Doll” e “Lady Marmalade”.

Gloria Gaynor – “Never Can Say Goodbye” (1974)


Gloria Gaynor invece non ha bisogno di tante presentazioni, una potenza e un timbro di voce unici con cui si distinse fin da subito dalle altre dive della discoteca. Il suo primo grande successo fu “Never Can Say Goodbye” (1974) singolo che diede il titolo al suo primo album pubblicato nel 1975 dalla MGM Records. Fu anche il primo brano a conquistare la posizione n. 1 nella classifica Disco di Billboard, nata proprio in quel periodo.

“Never Can Say Goodbye” fu tra le prime a dare il via al fenomeno della Disco Music che esplose poi in tutto il mondo a partire dal 1977. Ma anche questa canzone è una cover e la versione originale è stata scritta tre anni prima da Clifton Davis per i Jackson 5 e a cantarla era proprio lui, un giovanissimo Michael Jackson!

Pubblicata come singolo nel 1971 fu uno dei maggiori successi dei Jackson 5. In seguito sono state realizzate molte cover, e la più celebre rimane quella della Gaynor, ma alla voce della sua versione originale c’era un dodicenne Michael Jackson accompagnato dai suoi fratelli.

Jackson 5 – Never Can Say Goodbye (1971)