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I Carmina Burana: giocando a scacchi con la Fortuna

Qualche giorno fa in una bella serata di fine luglio ho avuto il piacere di ascoltare i Carmina Burana di Carl Orff. Un concerto suggestivo, affascinante, da cui è nata una mia recensione per la rivista “Le Salon Musical” che potete leggere qui.

Continuo però a riflettere. I Carmina Burana sono tra le pagine di musica classica più conosciute dal grande pubblico. Tutti abbiamo ascoltato almeno una volta (ma sicuramente più di una) l’apertura trionfale dell’opera con l’epico coro di O Fortuna. L’influenza dei Carmina Burana si estende ben oltre il mondo musicale: ha ispirato una vasta gamma di opere artistiche, dalle performance teatrali e coreografiche alle colonne sonore di film e pubblicità. La loro musica epica e coinvolgente è stata adottata in numerosi contesti, diventando un simbolo universale di passione e vitalità.

Una riflessione sulla Fortuna che governa il mondo

Le poesie medievali del XII e XII secolo musicate poi nel Novecento da Carl Orff si fanno veicolo di una riflessione sulla Fortuna che governa il mondo, oggi più che mai attuale e profonda. Viviamo in tempi complessi, incerti, con eventi imprevisti e sconvolgenti che possono cambiare radicalmente il corso delle nostre vite. I 24 testi dei Carmina Burana affrontano temi fondamentali dell’esistenza umana, mettendo in luce la nostra vulnerabilità, i desideri, le speranze e le paure. Sentimenti e situazioni che si ripetono costantemente nella storia. Tutti gli uomini sono rappresentati, in una dimensione senza tempo né spazio, nella quale anche Re e Papa si trovano immersi in un turbinio insieme alla gente comune.

La storia dei Carmina Burana: dal passato al presente, da Medioevo a Novecento

I Carmina Burana devono gran parte della loro grandezza alla preziosa raccolta di poesie medievali da cui prendono il nome.  La collezione comprende 325 testi poetici in latino, antico tedesco e francese, scritti fra il XII e il XIII secolo e contenuti nel manoscritto denominato Monacensis Latinus 1660, custodito dal 1803 nella Biblioteca Nazionale di Monaco di Baviera. Fu chiamato Buranus in quanto proveniente dall’abbazia bavarese di Benediktbeurn (Bura Sancti Benedicti) e giunse a Monaco in seguito all’editto napoleonico che decretava la secolarizzazione dei monasteri.

Il manoscritto è impreziosito da raffinate illustrazioni sulle tematiche trattate: il destino beffardo e padrone assoluto delle nostre vite, il rapporto con la natura, il gioco, il vino, l’amore fugace e quello autentico. Probabilmente i componimenti vennero prodotti in un’area geografica compresa tra la Germania sud-orientale, l’Austria occidentale ed il Tirolo dai clerici vagantes: giovani poeti e studenti itineranti che esprimevano liberamente le loro esperienze di vita, il desiderio di amore e piacere, e la riflessione sulla condizione umana.

Il compositore tedesco Carl Orff decise di mettere in musica una selezione di questi componimenti e iniziò la stesura il Giovedì Santo del 1934. Era venuto a conoscenza del manoscritto Buranus per un fortuito caso, era rimasto così affascinato dalla profondità e dalla varietà dei testi da comporre di getto i primi due dei ventiquattro brani che costituirono il lavoro finale. L’opera (una Cantata scenica, per soli coro e orchestra) fu eseguita per la prima volta nel giugno del 1937 ricevendo immediatamente un’entusiastica accoglienza da parte del pubblico e della critica.

Il sottotitolo originale recita: “Canzoni profane da cantarsi da cantori e dal coro, accompagnati da strumenti e immagini magiche”.

Non solo “O Fortuna

I Carmina Burana di Orff sono divisi in tre parti ognuna delle quali racchiude una varietà di brani, dal coro alle arie solistiche e ai duetti. La partitura orchestrale è dominata da percussioni potenti, mentre i cori collettivi e i solisti si alternano a esprimere la gamma di emozioni presenti nei testi.

La prima parte, “Primo Vere” (In Primavera), celebra l’arrivo della primavera, la bellezza della natura e la gioia del vivere. Questi brani esplorano il tema dell’amore e della passione, invitando gli ascoltatori a lasciarsi trasportare dalle emozioni della stagione della rinascita. In questa sezione troviamo la parte più famosa e conosciuta dell’opera: la celeberrima apertura trionfale del coro “O Fortuna”.

Omnia sol temperat
purus et subtilis
novo mundo reserat
faciem Aprilis;
ad amorem properat
animus herilis
et iocundis imperat
deus puerilis.
Tutto riscalda il sole puro e delicato nuovamente si svela al mondo il volto di Aprile,
aspira all’amore l’animo dell’uomo e con gioia comanda il dio fanciullo. (da: “Omnia sol temperat”)

La seconda parte, “In Taberna” (Nella Taverna), offre un contrasto vivace e goliardico con canti che esaltano l’allegria della convivialità e della festa in una taverna medievale. L’atmosfera è contagiosa e i ritmi coinvolgenti spingono il pubblico a dondolarsi al ritmo della musica.

In taberna quando sumus,
non curamus quid sit humus,
sed ad ludum properamus,
cui semper insudamus.
Quid agatur in taberna,
ubi nummus est pincerna,
hoc est opus ut queratur,
si quid loquar, audiatur.
Quando siamo nella taverna, non pensiamo a quando saremo polvere, ci diamo al gioco senza tregua.
Quel che accade nella taverna, dove comanda il denaro, si farebbe bene a chiederlo, chi risponde, sarà ascoltato.
(da: “In taberna quando sumus”)

La terza e ultima parte, “Cour d’Amours” (Il Tribunale dell’Amore), introduce una dimensione più intima e riflessiva. Qui i canti esplorano l’amore e le relazioni umane, rivelando il lato più tenero e vulnerabile dell’esistenza umana.

Amor volat undique;
captus est libidine.
Iuvenes, iuvencule
coniunguntur merito.
Siqua sine socio
caret omni gaudio;
tenet noctis infima
sub intimo
cordis in custodia:
fit res amarissima.

Amore vola ovunque; richiamato dal desiderio. Fanciulli e fanciulle si uniscono secondo natura. Alla fanciulla priva di amante, manca ogni fonte di gioia; la possiede la notte oscura nascosta nelle profondità del cuore: è la cosa più amara. (Amor volat undique)

E come tutto inizia, così tutto ha una fine. Il famosissimo brano di apertura “Fortuna Imperatrix Mundi” torna a chiudere l’opera. È proprio la Dea Fortuna, con la sua ruota girevole, a fare da perno per tutta la rappresentazione: il destino di tutti gli uomini inizia e finisce con la sua inappellabile legge.

Il lascito dei Carmina Burana: un’eredità duratura

I Carmina Burana di Carl Orff hanno lasciato un’impronta indelebile nel panorama musicale e culturale. La loro straordinaria bellezza e potenza li hanno resi un’icona della musica classica del XX secolo e un’opera di riferimento nel repertorio corale e sinfonico.

Oggi, a decenni dalla sua creazione, l’opera continua a conquistare i palcoscenici di tutto il mondo, suscitando l’ammirazione di nuove generazioni di spettatori. La sua capacità di parlare a ogni persona, indipendentemente dalla sua provenienza o formazione culturale, ne fa un capolavoro senza tempo, un ponte tra passato e presente, tra realtà e fantasia. Anche se l’immaginario collettivo si limita spesso all’apertura trionfale di O Fortuna.

In un’epoca in cui il mondo è affrontato da sfide globali come crisi economiche, pandemie, cambiamenti climatici e instabilità politica, l’opera di Orff ci invita a riflettere sulla nostra relazione con il destino e la casualità. Ci sfida a confrontarci con la realtà imprevedibile della vita, quasi una partita a scacchi con la Fortuna richiamando il celebre film di Ingmar Bergman.

I Carmina Burana di Carl Orff sono più di una semplice opera musicale. Sono un viaggio emozionante e universale, un’esperienza che ha attraversato i secoli per toccare il cuore di chiunque si lasci affascinare dalla loro straordinaria bellezza. La loro fama e diffusione planetaria sono la testimonianza della loro grandezza e della loro capacità di parlare al profondo dell’anima umana.

O Fortuna,
velut Luna
statu variabilis,
semper crescis
aut decrescis;
vita detestabilis
nunc obdurat
et tunc curat
ludo mentis aciem,
egestatem
potestatem
dissolvit ut glaciem.

Sors immanis
et inanis
rota tu volubilis
status malus
vana salus
semper dissolubilis,
obumbrata
et velata
mihi quoque niteris;

Nunc per ludum
dorsum nudum
fero tui sceleris.
sors salutis
et virtutis
mihi nunc contraria
est affectus
et defectus
semper in angaria.

Haec in ora
sine mora
corde pulsum tangite;
quod per sortem
sternit fortem
mecum omnes plangite

O fortuna come la luna cambi forma, sempre tu cresci o cali; la vita detestabile ora perdura salda e ora occupa l’ingegno con un gioco, la miseria e il potere dissolve come ghiaccio. / Fortuna immane e vuota tu ruota che giri funesto stato futile benessere sempre incerto oscura e velata sovrasti pure me; / Ora al tuo capriccio offro il mio dorso nudo. La Fortuna ed il successo ora mi sono avverse, difficoltà e privazioni mi tormentano. / In questa ora, senza indugio risuonino le vostre corde; piangete tutti come me: a caso ella abbatte il forte!

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Una musica per sopravvivere

filo spinato campo concentramento

La Musica si può analizzare scientificamente e oggettivamente come suono, possiamo parlare della sua altezza, del timbro, della durata; possiamo discutere nota dopo nota della tecnica compositiva del brano musicale, ma non si riesce mai pienamente a valutare quale impatto determinerà nell’ascoltatore.

John Sloboda, musicologo e rappresentante della Psicologia Cognitivista, afferma che «vista con il freddo occhio del fisico, un evento musicale è solo una raccolta di suoni di varia altezza, durata, e altre qualità misurabili. In qualche modo, la mente umana attribuisce a questi suoni un significato. Essi diventano simboli per qualcos’altro che va al di là del puro suono, qualcosa che induce a piangere o a ridere, che piace o dispiace, che commuove o lascia indifferenti.»  

La Musica è un’arte invisibile, impalpabile, eppure così potente da riuscire a toccare nel profondo il nostro animo. La Musica alle volte ha la capacità di far viaggiare nello spazio e nel tempo, di far rivivere un ricordo passato o trasportare in un altrove immaginario.

La musica può diventare una via di fuga: una frase che si può leggere in chiave romantica e fantastica, ma che tristi pagine di Storia hanno reso reale. La musica durante la Seconda Guerra Mondale nei campi di prigionia e di sterminio nella Germania nazista è stata per molti una via di fuga, sopravvivenza o dolce oblio.

La musica nei campi di concentramento

La musica composta nei campi di concentramento è una pagina ancora poco conosciuta. C’era musica, ma utilizzata per le finalità più bieche. I nazisti se ne servivano per mantenere l’ordine e la calma o per nascondere urla ed esecuzioni. Al suono di allegre marcette e canzoni popolari, i deportati venivano accompagnati dai treni della morte fino alle camere a gas. Oppressi, perseguitati, ridotti a morti che camminano: la musica fu un’ancora di salvezza, un atto di resistenza alla morte, una via per sopravvivere capace di dar loro speranza anche nel fondo dell’abisso.

Nei campi furono deportati anche grandi musicisti e compositori che hanno continuato a coltivare la passione per la musica suonando e componendo; alle volte di nascosto, qualche volta con il favore delle guardie. Era l’unica via di fuga all’orrore quotidiano, un atto di forte affermazione della propria umanità e di resistenza alla morte.

Molto spesso non si aveva a disposizione carta su cui scrivere e gran parte di queste pagine di musica sono state ritrovate in pezzi di stoffa, carta igienica, sacchi di juta oppure tramandate per via orale sperando che qualcuno sopravvivesse all’orrore del campo.

In particolare, nei campi di concentramento dove si trovavano prigionieri politici non era permesso scrivere musica. In altri invece esistevano addirittura delle orchestre, divise per genere (o tutte maschili o tutte femminili) solo a Theresienstadt c’era un’orchestra mista; a Buchenwald c’era una di 80 elementi, ad Auschwitz invece ben sette.

Un mezzo sublime per il più perverso degli scopi

Che fosse concesso suonare e avere strumenti musicali non va letto come un gesto di generoso disinteresse: la musica veniva utilizzata come mezzo sublime per il più perverso degli scopi. Ad esempio, il famoso musicista polacco Artur Gold deportato a Treblinka fu ricevuto con tutti gli onori, gli venne concessa un’orchestra con cui allietò i militari e poi fu ucciso.

Disarmante la storia di Ilse Weber, un’ebrea ceca, scrittrice di poesie e favole per bambini. Il 6 ottobre 1944 accompagnò suo figlio Tomáš e altri bambini nelle docce di Auschwitz; la guardia delle SS le consigliò di sedersi per terra coi bambini e cantare con loro, in modo da inalare il gas più in fretta e morire prima che si diffondesse il panico. Anni dopo il marito, sopravvissuto, ha ritrovato accanto a un capanno degli attrezzi a Theresienstadt le opere di Ilse: le aveva sotterrate lì nella speranza che qualcuno un giorno le trovasse.

Il testo della canzone “Wiegala” è in lingua ceca, la lingua della sua casa, una dolce melodia composta da Ilse Weber che è rimasta nella memoria come un simbolo del massacro di tutti gli innocenti. La musica è tutto ciò che ai deportati restava e spesso tutto ciò che resta di loro.

Ilse Weber – Wiegala (canta: Anne Sofe Von Otter)

La musica prodotta in cattività aveva poteri taumaturgici, rovesciava letteralmente le coordinate umanitarie dei siti di prigionia e deportazione, polverizzava le ideologie alla base della creazione di Lager e Gulag. Forse non salvava la vita, ma sicuramente questa musica salverà noi.

Francesco Lotoro

Un grande e lungo lavoro di ricerca nel ritrovare e documentare queste preziose pagine di musica è stato compiuto dal musicologo e pianista Francesco Lotoro. Un’impresa che dura da più di trent’anni grazie a cui ha recuperato oltre 5.000 composizioni musicali nate nei lager nazisti e nei campi di prigionia della Seconda Guerra Mondiale. Testimonianze di inestimabile e altissimo valore umano: musiche di libertà, musiche per salvare la propria vita e l’unica virtuale via di fuga dall’orrore quotidiano.

La scrittrice francese Marguerite Yourcenar disse: «la musica mi trasporta in un mondo in cui il dolore non smette di esistere, ma si allarga, si placa, diventa insieme più calmo e più profondo». Così per gli ebrei prigionieri la musica era sostegno, un modo di darsi forza l’un l’altro. Se gli uomini scompaiono, la musica però sopravvive e così noi oggi possiamo ascoltare la voce di un’arte che canta la tragica vicenda dell’occidente sull’orlo dell’abisso.

Per un approfondimento consiglio il libro “Un canto salverà il mondo” di Francesco Lotoro.

Leggi anche:
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Perché ascoltare musica ci fa stare bene?

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Quando Beethoven aprì partita iva

Ludwig van Beethoven. Non servono presentazioni. È un artista che tutti conosciamo, o per lo meno di cui abbiamo sentito parlare; impossibile non aver mai ascoltato anche solo le prime note dell’immortale Quinta Sinfonia. Un pilastro della storia della Musica.

Parlando di Beethoven troppo spesso ci si sofferma sulla sua sordità, sulla sua solitudine, sulla sua eroica decisione di non soccombere alla disperazione e di affrontare il destino avverso.

Forse non si sottolinea abbastanza il fatto che le sue opere furono la prima manifestazione musicale dell’età moderna, non solo a livello tecnico musicale. Beethoven è il primo musicista della storia della musica che si considera investito di una missione, che si sente intenzionato a sviluppare appieno le proprie capacità artistiche e che si sente portatore di un messaggio da tramandare al pubblico al di là del tempo. 

È l’inizio di una nuova storia della musica.

TEMPESTA E IMPETO

Quando nacque Beethoven (Bonn, 16 dicembre 1770), il mondo culturale e letterario della Germania e dei piccoli stati che la formavano stava subendo la forte influenza del movimento chiamato Sturm und Drang (tempesta e impeto) guidato dal poeta e filosofo Johann Gottfried von Herder. Vi parteciparono molti scrittori e artisti, come Johann Wolfgang Goethe e Fredrich Schiller.

Il movimento sottolineava l’importanza di identità, linguaggio e arte nazionali e dava grande valore alla libertà personale e all’eroica resistenza agli oppressori. Sosteneva una sintesi di idee romantiche, classiche e illuministe. Il mondo musicale, come quello letterario e artistico, espresse questi ideali in sinfonie e musica vocale.

IL MUSICISTA LIBERO PROFESSIONISTA

Ad inizio Ottocento ci fu un declino del mecenatismo, sia delle grandi corti sia della Chiesa, che fino ad allora era stato determinante nella storia della Musica, e iniziò l’emancipazione dell’artista. Un cambiamento favorivo dalla nascita del mercato musicale, dal crescere della nuova classe sociale della borghesia e della richiesta di musiche sempre nuove ed accessibili ai tanti dilettanti (ovvero coloro che si approcciavano alla musica per diletto).

Si cominciò quindi a delineare la figura del musicista professionista che viveva dalle entrate procurate dal suo lavoro. Per usare un termine dei tempi d’oggi si potrebbe dire il musicista divenne un “libero professionista” ed ecco un Beethoven che, con un prosaico parallelo, aprì la partita iva.

Il musicista ora vive delle entrate procurategli dalle sue composizioni, dalle commissioni alla vendita delle sue opere stampate; dall’insegnamento di tipo privato, favorito dalla borghesia e dallo sviluppo della musica da salotto; e dal concertismo, inteso non più come accademica esibizione virtuosa, ma come contributo interpretativo alla comprensione dell’opera d’arte.

Cresce di importanza la figura dell’autore, piuttosto che dell’esecutore e del virtuoso, con una drastica diminuzione della musica composta a favore della qualità. Il libero mercato concorrenziale ha contribuito alla diversificazione stilistica come non succedeva in precedenza: innovazione e originalità diventano prioritarie.

«Mai era accaduto prima che l’arte di un musicista si addentrasse tanto nelle passioni, negli entusiasmi e negli ideali del suo tempo. Che la musica partecipasse direttamente al modo delle idee, al travaglio spirituale, allo stesso divenire politico di un’età. Ciò fondò l’immensa popolarità di Beethoven e determinò addirittura un nuovo indirizzo nella vita musicale.

Beethoven è il nocciolo attorno al quale si forma l’organizzazione dei concerti del mondo intero. Con l’indipendenza della vita egli mutò la condizione sociale del musicista, rifiutando di essere, come i suoi predecessori, il famiglio o il cliente di una casa gentilizia; con l’arte, egli diede un nuovo significato sociale alla musica sinfonica e strumentale, che strappò dall’ambiente chiuso delle accademie aristocratiche, e divulgò in quel ceto borghese che stava per ereditare la condotta del mondo». (Massimo Mila, “Breve storia della musica”, Einaudi, Torino, 1977, p. 204)

L’INIZIO DELLA MODERNITÀ

Beethoven oggi è uno degli esponenti del periodo “Classico” della storia della Musica: quel momento che si colloca dopo il Barocco e prima del Romanticismo, tra il 1750 e il 1820 circa, i cui altri massimi esponenti sono stati Haydn e Mozart.

Beethoven, oggi emblema della Classicità, è stato un musicista rivoluzionario: le sue opere sono considerate la prima manifestazione musicale dell’età moderna. Si può leggere questo momento della storia come l’inizio della modernità, nel senso di una visione concettualmente contemporanea di come oggi si considera la musica e il musicista.

Ogni composizione musicale ora impegna a fondo la personalità dell’autore, secondo una concezione nuova dell’originalità artistica. Compare una nuova possibilità storica: poiché il musicista può non dover più rendere conto né ai padroni né agli ascoltatori, ma soltanto all’umanità e alla storia, si sente libero di comporre soltanto ciò che considera esteticamente e tecnicamente adeguato, valido e bello.

Si entra nella modernità quando un compositore inventa nuovi procedimenti di scrittura senza preoccuparsi di come verranno percepiti e compresi.

L’entusiasmo e la saldezza ideologica del Beethoven più tipico esercitarono per tutto il secolo un fascino irresistibile: la trasformazione di Beethoven in monumento non è solo dovuta alla sua creatività musicale, ma anche alla sua statura umana. [Carl Dahlhaus]

Leggi anche: Beethoven e Kandinskij: la Quinta Sinfonia in due linguaggi differenti

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Happy Xmas (War is Over): sbattiamo la pace in prima pagina

war is over

Happy Xmas (War is Over) è uno dei brani di Natale più famosi in assoluto ed è nato da un’idea molto attuale: se vuoi promuovere qualcosa, anche un concetto alto e puro come la pace nel mondo, la devi vendere “come fosse sapone”.

I media ci sbattono continuamente la guerra in faccia… ci mettiamo un po’ di pace tanto per cambiare?

John Lennon lo spiega bene: «Marciare andava bene per gli anni Trenta. Oggi bisogna usare metodi diversi. Tutto ruota intorno a una sola cosa: vendere, vendere, vendere. Se vuoi promuovere la pace, devi venderla come se fosse sapone. I media ci sbattono continuamente la guerra in faccia: non soltanto nelle notizie, ma anche nei vecchi film di John Wayne e in qualsiasi altro dannato film; sempre e continuamente guerra, guerra, guerra, uccidere, uccidere, uccidere. Così ci siamo detti: “Mettiamo in prima pagina un po’ di pace, pace, pace, tanto per cambiare… Per ragioni note soltanto a loro, i media riportano quello che dico. E ora sto dicendo “Pace”» (intervista tratta da: Philip Norman, “John Lennon, La Biografia”, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2009)

HAPPY CHRISTMAS FROM JOHN AND YOKO

Nasce da questa idea “Happy Xmas (War is Over)un classico del repertorio delle festività natalizie a firma John Lennon e Yoko Ono. Una canzone composta come forma di protesta contro la guerra in Vietnam, pubblicata come singolo negli Stati Uniti il 6 dicembre del 1971 (in Europa arriverà un anno dopo).

Nel 1971 la guerra la guerra del Vietnam continuava da sedici anni, era passato già un anno dallo scioglimento dei Beatles e due dal matrimonio tra John Lennon e Yoko Ono. L’impegno pacifista di Lennon iniziò durante la loro luna di miele, il 25 marzo 1969 con il “bed-in” nella stanza 1902 dell’Hotel Hilton di Amsterdam. Una forma di protesta pacifica, ma dall’impatto mediatico fortissimo: una delle più celebri proteste nonviolente contro la guerra.

I due sposini avevano svuotato la stanza di tutti i mobili lasciando solo il letto e avevano invitato la stampa mondiale a registrare per 12 ore al giorno la loro protesta contro il Guerra del Vietnam, fino al successivo 31 marzo. John e Yoko rimasero fermi in pigiama per tutto il tempo, sollevando ancor più clamore e curiosità.

Nel Natale dello stesso anno lo slogan “War is overfu utilizzato per una campagna pubblicitaria che coinvolse dodici delle maggiori città del mondo, tra cui Roma, tramite l’affissione di gigantografie che annunciavano «War is over! If you want it. Happy Christmas from John and Yoko».

John Lennon: «Henry Ford aveva capito alla perfezione come si dovessero vendere automobili attraverso la pubblicità. Io attualmente sto occupandomi di vendere pace, e quello che stiamo allestendo io e Yoko non è altro che un’enorme campagna pubblicitaria che ha come scopo la “vendita” della Pace. Può anche far ridere la gente, ma nello stesso tempo la costringe a pensare a quello che stiamo dicendo. È come se in realtà noi fossimo “Coniugi Pace”» (Mark Addams, Lennoniana. Pensieri e parole di John Lennon, Blues Brothers, Milano 2010, p. 122). 

UNA RIVISITAZIONE DELLO STANDARD FOLK “STEWBALL”

Happy Xmas (War is Over) è ancora oggi un brano simbolo di pace che va mescolandosi con l’atmosfera natalizia; indissolubilmente legato a John Lennon, e Yoko Ono, anche se la melodia non è una sua composizione originale, ma è ripresa da uno standard folk dal titolo “Stewball”.

“Stewball” è una vecchia ballata della tradizione americana interpretata a partire dagli anni ’40 da molti artisti folk: da Woody Guthrie, al trio Peter Paul & Mary e gli Hollies. Il testo della canzone è di matrice fiabesca: racconta di un cavallo da corsa che beve sempre troppo vino.

Peter Paul & Mary – “Stewball”

Secondo il musicologo Peter van der Merwe “Stewball” risale ad una antica ballata “The noble Skewball”, rinominata in “Go from My Window” in epoca elisabettiana. Nel corso della storia diventò un canto di lavoro dei neri americani, con il titolo di “Go ‘Way F’om Mah Window” e il suo caratteristico andamento blues.

John Lennon ha mantenuto la melodia di “Stewball” cambiandone completamente il del testo e aggiungendo tipiche sonorità natalizie. “Stewball” si è cosi trasformata in “Happy Xmas (War is Over)”: una sorta di preghiera laica che invoca la pace.

Curioso pensare che anche “Jingle Bells”, altra celebre canzone natalizia, con il Natale non c’entra nulla: nella sua versione originale era un canto da osteria che raccontava di corse con le slitte trainate da cavalli. Ancora cavalli e ancora alcolici, ho raccontato la sua storia qui: La storia di Jingle Bells: come un canto d’osteria è diventato un classico del Natale.

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Con la musica (non) si mangia

coltelli musica

Domanda: “Che lavoro fai?”
Risposta: “Il musicista!”
Domanda: “Sì… ok… ma di lavoro, per vivere, cosa fai?”

Vi sembra un dialogo no sense? Ahimè, invece, è molto più vero di quanto si possa pensare… molto, molto di più. Che quello del musicista spesso non venga considerato come un lavoro e che con la cultura in Italia “non si mangia” non è una novità. La discografia sta vivendo una crisi che perdura ormai da moltissimi anni, che sia per colpa dello streaming, che sia per colpa di tante altre dinamiche che hanno stravolto il mercato e il music business.

Non è però questo l’articolo in cui troverete un elenco di numeri e percentuali deprimenti. Bensì scoprirete che molto tempo fa con la musica si mangiava, letteralmente intendo!

I COLTELLI “CANTERINI”

Quella dei “coltelli canterini” è una scoperta affascinante e ammantata di mistero Sono dei coltelli, delle posate vere e proprie, di epoca rinascimentale con una particolarità che li rende unici: hanno degli spartiti musicali incisi sulle loro lame.

Sono splendidi e rari capolavori dell’artigianato italiano del XVI secolo, oggi custoditi nei musei di tutto il mondo, come il Victoria & Albert Museum di Londra, il Museo Fitzwilliam di Cambridge e il Louvre di Parigi. Il manico è in avorio finemente intarsiato con inserti in ottone e argento; la lama in acciaio è lunga come un tagliacarte e larga quasi quanto quella di coltello da macellaio.

La caratteristica che li rende unici è la presenza di una notazione musicale incisa su entrambi i lati della lama con il testo in lingua latina. Da un lato una benedizione da cantare all’inizio del pasto (ad esempio: “Benedictiao Mensae. Quae sumpturi sumus benedicat trinus et unus”), girandolo dall’altro lato si trova invece una preghiera di ringraziamento da cantare alla fine (ad esempio: “Gratiarum Acto. Pro tuiis beneficiis deus gratias agimus”).

I coltelli riportano inoltre il registro vocale con cui si doveva intonare la melodia: tenore, basso, contralto, soprano.

Tutti questi elementi suppongono quindi un utilizzo devozionale, presumibilmente attorno alle ricche tavole della nobiltà italiana del Rinascimento, a metà tra la preghiera e il canto.

LE IPOTESI SUL LORO UTILIZZO

Molti studiosi si sono interrogati sul reale utilizzo di questi particolarissimi coltelli musicali. Kirstin Kennedy, curatrice del Victoria & Albert Museum (dove ne è presente una ricca collezione) osservandone la lama affilata, ipotizza che venissero utilizzati per tagliare la carne, o forse più certamente che servissero per presentare la carne ai commensali. Con l’estremità appuntita si sarebbe poi infilzata la fetta di carne. Nelle feste nobili del tempo, i commensali non tagliavano la propria carne, ma avevano dei servitori che lo facevano per loro. Era una delle tante regole dell’etichetta dell’epoca.

clicca qui per visualizzare l’intervista a Kirstin Kennedy, curatrice del Victoria & Albert Museum di Londra

Le melodie incise nei diversi registri vocali suggeriscono che venissero cantati dai commensali insieme, ad inizio e fine pasto, formando un coro unico e coeso. Questo suppone però che la servitù nell’apparecchiare la tavola dovesse tener conto di quale coltello abbinare a ciascun ospite. Ma anche che tutti sapessero leggere la musica, intonare quei canti e che, a fine pasto, si dovesse ripulire la lama per eseguire la melodia incisa nel “lato b”.

Alcuni studiosi hanno lanciato l’ipotesi che fossero invece dei singolari segnalibri, intuizione dovuta anche al fatto di aver ritrovato un coltello “canterino” all’interno di un antico volume. Un mistero che forse non verrà mai risolto, ma che avvolge di grande fascino questi meravigliosi oggetti di cui oggi possiamo ancora ascoltare la loro musica:

Clicca qui per ascoltare l’audio del canto di benedizione
Clicca qui per ascoltare l’audio del canto di ringraziamento

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La storia del Rock in una canzone

Era il 1979 quando Neil Young pubblicò “Rust Never Sleeps”, la ruggine non dorme mai. Un titolo che già sa di leggenda per un disco che si apre con il brano My, My, Hey, Hey (Out Of The Blue): in pochi versi Neil Young riassume la storia del Rock, la sua filosofia e il suo futuro.

“The King” is gone but he’s not forgotten
This is the story of a Johnny Rotten
It’s better to burn out than fade away
“The King” is gone but he’s not forgotten
.


ROCK AND ROLL IS HERE TO STAY

Siamo alla fine degli anni ’70 e il Rock ha alle spalle un glorioso passato, ha radici ben salde, ma il tempo passa inesorabilmente con il rischio di arrivare alla “corrosione” artistica. Non per il Rock, non per la vera essenza del Rock, per la sua energia primitiva che sta alla sua base ed è la sua salvezza. Il Rock è come la ruggine e “non dorme mai”.

My, My, Hey, Hey (Out Of The Blue) che apre la prima facciata del disco, viene riproposta in versione elettrica alla fine, con il titolo cambiato in My, My, Hey, Hey (Into The Black) e il testo leggermente modificato. Neil Young voleva sparare in faccia all’ascoltatore tutta l’energia debordante del Rock a volumi assordanti. Nel mondo del Rock se devi dire qualcosa devi dirlo forte, potente e devi dirlo presto.

“THE KING” IS GONE BUT HE’S NOT FORGOTTEN

A Neil Young l’ispirazione per questo brano arrivò sull’onda emotiva della morte di Elvis Presley avvenuta due anni prima, 16 agosto 1977. È il lui “il Re” che se ne è andato, ma che non potrà mai essere dimenticato, come canta nel verso “The King” is gone but he’s not forgotten. La storia del Rock nasce con lui: tutto cominciò da Elvis Presley che si agitava selvaggiamente scuotendo il bacino a ritmo indiavolato.

Erano gli anni Cinquanta ed Elvis svegliò l’America del Dopo Guerra. Era ribelle, irriverente, spudorato e il Rock divenne la colonna sonora di una generazione e di trasformazioni sociali che sono arrivate fino ad oggi.

La nascita del Rock’n’Roll fu la risposta diretta alla nascita di un nuovo soggetto sociale: i giovani. Oggi siamo abituati a considerare i giovani come un mondo con gusti e comportamenti propri, ma prima di allora non era così. Prima della metà degli anni Cinquanta ai giovani non era riconosciuta autonomia culturale e per la prima volta in assoluto nella storia nacque una musica rivolta esclusivamente a loro: ne rivendicava una propria identità, in conflitto con il resto della società.

Stanchi delle consuetudini e con un grande desiderio di libertà, i giovani cominciarono a stabilire proprie regole nell’abbigliamento, nei comportamenti, nelle relazioni sociali e nella musica. Iniziano a scegliere una musica in grado di esprimere i loro desideri. Il Rock’n’Roll nasce dal conservatorismo della Country Music e l’energia ribelle del Rhythm’n’Blues: incarnava l’ambivalenza che sentivano i giovani di allora, divisi tra un distaccamento dal modello parentale conformista e la sfiducia nei simboli del benessere.

I giovani diventano un soggetto sociale ben definito e soprattutto un nuovo soggetto economico da intercettare. L’interesse dei pubblicitari puntò presto verso questa nuova fascia di popolazione in grado, molto più che in passato, di spendere e consumare.

THIS IS THE STORY OF A JOHNNY ROTTEN

Anche se “la ruggine non dorme mai” di acqua sotto i ponti del Rock ne è passata tanta. Con Neil Young e My, My, Hey, Hey (Out Of The Blue) siamo nel 1979, siamo nel momento della storia in cui arriva il Punk a dare uno scossone allo star system del Rock.

“No future” cantavano i Sex Pistols. Nessun futuro, nessuna speranza. Mentre il 16 agosto 1977 Elvis, il Re, si spegneva nella sua dorata Graceland, in Inghilterra esplodeva il Punk. Johnny Rotten, il leader dei Sex Pistols, con tutta la sua carica nichilista e ribelle, faceva a pezzi il mondo di lustrini e paillette che il Rock non era riuscito a distruggere.

Il Punk è il Rock’n’Roll di una generazione senza sogni e senza speranze, che non vede la possibilità di un futuro migliore e prova a cantare la propria rabbia mettendo da parte le buone maniere, scardinando le regole dello show-business.

Con Woodstock e la fine degli anni Settanta era finita l’era d’oro del Rock. Chiusa la fucina dei grandi ideali e delle rivoluzioni, arrivò l’industria discografica con il chiaro obiettivo di capitalizzare il Rock. Il Rock degli anni Settanta con la sua forza comunicativa era riuscito ad abbattere molti muri e si era conquistato un posto di primo piano nel panorama culturale e dello spettacolo. Celebrava il suo trionfo cambiando pelle ed entrando a patti con la cultura di massa.

IT’S BETTER TO BURN OUT THAN TO FADE AWAY

Neil Young canta di uno spirito ribelle che nonostante tutto non si arrugginisce, canta il timore di un conservatorismo artistico da cui è possibile salvarsi mantenendo viva l’energia primitiva del Rock. E curiosamente My, My, Hey, Hey (Out Of The Blue) è entrata nella leggenda della storia del Rock anche perché è legata a filo doppio ad un gruppo ed un genere musicale che per molti ha ucciso il Rock: il Grunge dei Nirvana.

Elvis inizia la sua carriera nel 1954 e 40 anni dopo nell’aprile del 1994 Kurt Cobain, leader dei Nirvana, si suicidò. Nella lettera d’addio scritta poco prima di togliersi la vita e trovata accanto al suo corpo, Cobain cita esplicitamente un verso di questa canzone:

Tutti gli avvertimenti della scuola base del punk-rock che mi sono stati dati nel corso degli anni, dai miei esordi, come l’etica dell’indipendenza e della comunità si sono rivelati esatti. Non provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla e nel leggere e nello scrivere da troppi anni ormai. Questo mi fa sentire terribilmente colpevole. (…) A volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco (…) e ricordate, è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente. (“It’s better to burn out than to fade away”)

Ma il Rock è imprevedibile: nel corso della sua storia sono nati tantissimi generi e sottogeneri, dai più commerciali ai più estremi. Cambia pelle, si evolve e il suo spirito ribelle non morirà mai perché, come canta Neil Young: la ruggine non dorme mai.

Rock and roll can never die
There’s more to the picture
Than meets the eye

My my, hey hey
Rock and roll is here to stay
It’s better to burn out than to fade away
My my, hey hey

Out of the blue and into the black
You pay for this, but they give you that
And once you’re gone, you can’t come back
When you’re out of the blue and into the black.

The king is gone but he’s not forgotten
Is this the story of Johnny rotten?
It’s better to burn out than it is to rust
The king is gone but he’s not forgotten.

Hey hey, my my
Rock and roll can never die
There’s more to the picture
Than meets the eye.
Hey hey, my my.

Bibliografia:
Ernesto Assante e Gino Castaldo “Blues, Jazz, Rock, Pop. Il Novecento americano”, Einaudi, 2004.

logica

Dante e la musica nella Divina Commedia

dante musica divina commedia

Scrivere di Dante è tanto scontato quanto complesso. Se poi prendiamo in esame la Divina Commedia sono tantissimi i filoni tematici e gli spunti di riflessione sui cui ci si può soffermare, ampiamente affrontanti dalla critica e studiati nelle scuole.

La dimensione musicale però è forse uno degli argomenti meno conosciuti, anche se non è fatto mistero del grande amore che il Sommo Poeta aveva per la musica. Immergersi nella Divina Commedia è ritrovarsi in un modo di suoni e di canti.

Dante utilizza spesso simboli e metafore musicali per affrontare l’argomento centrale del poema: l’amore di Dio. La Divina Commedia è un cammino spirituale che eleva l’uomo dal peccato attraverso la purificazione per arrivare alla redenzione. La musica accompagna Dante tra Inferno, Purgatorio e Paradiso cambiando ed evolvendosi con lui, con una precisa logica e coerenza.

Tre cantiche, tre regni, tre musiche

Dante sceglie il numero 3 per costruire la sua opera, numero che rimanda alla Trinità Cristiana, alla perfezione e alla conoscenza. A livello strutturale la Divina Commedia è formata da 100 canti, suddivisi in 3 cantiche (secondo lo schema 1+33+33+33, dove il primo canto svolge il ruolo di introduzione) e la forma metrica scelta è la terzina di endecasillabi a rima incatenata.

Dante attraversa 3 differenti regni (Inferno, Purgatorio e Paradiso), nel suo viaggio è accompagnato da 3 diverse guide (Virgilio, Beatrice e San Bernardo), incontra 3 fiere, attraversa 3 fiumi e molto, molto ancora si potrebbe citare.

Il numero 3 torna anche nel concetto culturale che si aveva al tempo della musica, legato alla sua tripartizione teorizzata dal filosofo Severino Boezio (vissuto tra il V e il VI d.C.) nell’opera De institutione musicae. Il pensiero medievale distingueva la musica in tre categorie (ne ho già parlato qui).

musica mundana (l’armonia delle sfere celesti)
musica humana (che nasce dall’armonia tra corpo e spirito dell’uomo)
musica instrumentalis (quella udibile, prodotta dagli strumenti e dalla voce umana)

L’ordine d’importanza è decrescente: dalla forma concettualmente più alta data dall’armonia delle sfere celesti alla musica prodotta dagli strumenti. La musica che accompagna Dante nel suo cammino è quindi simbolo dell’ascesa: i rumori infernali vengono purificati dalla melodia e dall’armonia del Purgatorio fino ad arrivare alla polifonia e ai canti celestiali del Paradiso.


Inferno

L’Inferno è fatto di suoni sgradevoli, aspri e cupi. I rumori che Dante sente nei gironi sono sgraziati, lontanissimi dall’armonia celeste, è quasi “anti-musica”. Non ci sono armonie o melodie, sono lamenti e suoni che suscitano angoscia e paura. Non ci sono musiche ad alleviare le sofferenze dei dannati.

Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.

Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle


(Inf. III, vv. 22-27)


Nel regno dei dannati ci sono “parole di dolore” “accenti d’ira” “voci alte e fioche” “suon di man”. Una disarmonia infernale che marca ancor di più la distanza con i “dolci salmi” del Purgatorio, e che si ritrova anche nel corno del gigante Nembrot che risuona nel trentunesimo canto.

«Raphél maì amèche zabì almi», 
cominciò a gridar la fiera bocca, 
cui non si convenia più dolci salmi.

E ’l duca mio ver lui: «Anima sciocca, 
tienti col corno, e con quel ti disfoga 
quand’ira o altra passion ti tocca! 


(Inf. XXXI, vv. 67-72)


Purgatorio

Mentre nell’Inferno le grida dei dannati e i suoni sinistri che riecheggiano nei gironi sono una rappresentazione della condanna alla disperazione eterna, nel Purgatorio domina la salmodia (l’intonazione dei canti) elemento primitivo del canto cristiano. I salmi cantanti dalle anime del Purgatorio sono veri e propri riti di purificazione.

Il Purgatorio è il regno dello spirito che si purifica dal male e si salva. È il regno della liturgia cantata: la musica risuona in tutta la cantica assumendo un valore di rinnovamento e redenzione. Le anime trovano pace e armonia cantando: come nella tradizione gregoriana, cantare all’unisono è simbolo di unificazione interiore e riconciliazione con Dio.

Cantare insieme richiede disciplina, bisogna intonarsi con le altre voci e trovare la propria armonia interiore, la “musica dell’uomo”.

Da poppa stava il celestial nocchiero,
tal che faria beato pur descripto;
e più di cento spirti entro sediero.


‘In exitu Isräel de Aegypto’
cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto.


(Purg. II, vv. 43-48)

Il primo canto del Purgatorio è il salmo CXIII, “In exitu Isräel de Aegypto” (salmo biblico della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù dell’Egitto) che le anime cantano mentre sono ancora sul vascello. Dante ascolterà anche “Venite, benedicti Patris mei“, “Beati quorum tecta sunt peccata”, “In te, Domine, speravi”, l’Osanna, il Padre Nostro e l’elenco sarebbe ancora molto lungo.

Non sempre questi salmi sono cantati nella loro forma originaria, ma si alternano a grida e gemiti. Parole e lamenti caratterizzano il “canto del penitente” che comunica così la sua sofferenza.

La prima musica che Dante e le anime sul vascello ascoltano però è un canto profano. Il poeta nel secondo canto riconosce l’anima di un suo caro amico, il musicista Casella. I due si appartano e scambiano alcune parole affettuose e Dante chiede poi all’amico di rallegrare la sua anima intonando un canto e Casella esegue la canzone “Amor che ne la mente mi ragiona” (commentata da Dante nel III trattato del Convivio). Dante, Virgilio e tutte le anime ascoltano rapite quel canto melodioso: la memoria e la nostalgia del mondo terreno sono ancora vive e presenti.

E io: «Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,

di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!».

 ‘Amor che ne la mente mi ragiona’
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.

(Purg. II, vv. 106-114)



Paradiso

Il Paradiso è il regno dell’armonia, della musica divina prodotta dall’armonia delle sfere celesti: il suono delle eterne rote.

L’approdo al Paradiso segna l’ingresso di Dante nel regno della polifonia: diverse voci insieme sperimentano la massima libertà all’interno di un rigido ordine dato dalle leggi del contrappunto. E mentre nel Purgatorio la musica ascoltata da Dante è legata alla parola di brani noti del repertorio sacro; nel Paradiso la musica rimanda alla raffigurazione della luce e al moto delle anime. Si riscatta dalla rappresentazione fedele della riproduzione melodica del testo sacro.

Musica, luce e movimento: il movimento è dato dal desiderio e dall’amore per Dio, mentre la musica e la luce sono la propagazione di Dio. Il Paradiso è un mondo di luce e suoni armoniosi, tanto forti e potenti che Dante ne rimane annientato.

‘Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo’,
cominciò, ‘gloria!’, tutto ‘l paradiso,
sì che m’inebrïava il dolce canto.


Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso
de l’universo; per che mia ebbrezza
intrava per l’udire e per lo viso.


(Par. XXVII, vv. 1- 6)

La musica trascende la comprensione intellettuale, diviene mezzo per creare un’esperienza mistica di armonia e bellezza avvicinandosi al divino. La musica è un simbolo per tentare di esprimere il mistero dell’Amore eterno.

così vid’ ïo la gloriosa rota
muoversi e render voce a voce in tempra
e in dolcezza ch’esser non pò nota
se non colà dove gioir s’insempra.


(Par. X, 144 -148)

Nell’Empireo si arriva all’assenza di musica, che non è da intendersi come silenzio, ma l’essere arrivati a quella perfezione che l’orecchio umano non può comprendere (la “musica mundana”, l’armonia delle sfere celesti).

Parlare di musica nella Divina Commedia è un tema molto vasto. Questo articolo è solo un breve cenno, una base per approfondimenti più ampi e minuziosi. La musica in Dante, inoltre, non si esaurisce nel Poema delle cento cantiche, per questo concludo con una citazione dal Convivio:

La Musica trae a sé li spiriti umani, che quasi sono principalmente vapori del cuore, si che quasi cessano da ogni operazione: si è l’anima intera, quando l’ode, e la virtù di tutti quasi corre a lo spirito sensibile che riceve lo suono.

(Convivio II, 24).


Le immagini che accompagnano questo articolo sono alcune delle bellissime incisioni di Gustave Doré ispirate alla Divina Commedia.

musica

L’oblio delle compositrici – La donna nella storia della musica

Ludwig, Wolfgang, Johann Sebastian, Richard, Franz, Antonio… Basta solo il nome, la memoria richiama il cognome in automatico e le note delle loro più famose melodie risuonano facilmente nella nostra mente. Sono alcuni dei più grandi compositori della storia della Musica occidentale e sono tutti uomini.

Per molto, moltissimo, tempo comporre musica è stata un’attività legata al mondo maschile; certo, le donne studiavano musica, potevano diventare bravissime cantanti ed eccellenti virtuose, ma erano doti finalizzate ad arricchire le doti di moglie, madre e angelo del focolare.

L’aspetto più creativo del far musica, la composizione, era riservata agli uomini; ma recenti, e tardi, studi hanno individuato nel corso dei secoli una presenza di donne compositrici. Molti nomi illustri che a causa della condizione sociale e culturale delle donne nel corso dei secoli, ancora oggi sono considerate figure minori, quasi sconosciute e dimenticate. Alcuni studiosi parlano di un “oblio delle compositrici”, lasciate, soprattutto agli occhi del grande pubblico, nel più totale silenzio.


MEDIOEVO

Già in alcuni documenti di epoca medievale viene riscontrato un ruolo attivo della donna legata al servizio religioso, non solo come interprete, ma anche come autrice. Tra le tante spicca il nome della tedesca Hildegard von Bingen (Santa Ildegarda) (1098-1179), badessa benedettina dell’abbazia di Rupertsberg. Figura di alto prestigio spirituale, politico e letterario, raccolse le proprie composizioni in una raccolta dal titolo “Symphonia armonie celestium revelationum”, 77 brani a formare un ciclo liturgico completo; compose anche il dramma morale “Ordo virtutum”.

Dal XII secolo risultano attive donne compositrici anche nella sfera della musica profana. Nella cerchia dell’alta società ritroviamo nobildonne che condividono il codice maschile dell’amor cortese e scrivono secondo le convenzioni del genere, come Blanche de Castile, regina di Francia e troviera.

Non mancano anche compositrici di classi inferiori, in questo caso le ritroviamo nel ruolo di “menestrelleitineranti di cui è documentata l’attività di esecutrici e anche improvvisatrici presso le corti. Sarà poi lo sviluppo della polifonia che escluse del tutto le donne dalla composizione professionale poiché lo studio delle tecniche compositive era ad uso esclusivo del clero.

RINASCIMENTO

Nel Quattrocento il modello di educazione umanistica delle famiglie aristocratiche comprendeva anche l’istruzione musicale, ma era una pratica finalizzata ad arricchire le doti della futura sposa. La composizione per le donne era considerata una forma di otium aristocratico, non aveva sbocchi professionali.

Dal Cinquecento si cominciano a registrare le prime eccezioni: nelle corti si affermò la figura delle cantanti professioniste e questo diede la possibilità alle donne di intraprendere una carriera musicale e sfruttare professionalmente il proprio talento. Anche se per la maggior parte non erano compositrici, ma virtuose del canto o di uno o più strumenti.

Tra le donne compositrici dell’epoca un nome importante è quello di Maddalena Casulana, la cui fama da compositrice superò quella di cantante. Alcune sue musiche arrivarono anche alla corte di Guglielmo di Baviera che le scelse per accompagnare i festeggiamenti del suo matrimonio. Nata a Vicenza intorno al 1540 fu liutista, cantante e compositrice; arrivò alla Corte dei Medici a Firenze dove Isabella de’ Medici le fece da protettrice e le commissionò “Il primo libro de’ madrigali a quattro voci”. Il testo si apre con una dedica rivolta a Isabella de’ Medici (forse una della prime rivendicazioni del ruolo della donna in ambito professionale) in cui la Casualana dichiara:

“…dimostrare al mondo il
vanitoso errore degli uomini di
possedere essi loro doti
intellettuali, e di non credere
possibile che possano esserne
dotate anche le donne…”

Maddalena Casulana

SEICENTO

Nel Seicento le donne compositrici si dedicarono con successo a forme e generi diversi: dalla musica strumentale alla monodia accompagnata, da madrigali, canzonette e balli a raccolte di musica sacra e profana. Molto spesso provenivano da famiglie di musicisti e letterati, come Francesca Caccini (1587-1640), figlia d’arte del più celebre Giulio; fu cantante, compositrice, strumentista e si esibì nelle maggiori corte europee. Fu una delle musiciste che più contribuì alla fioritura della musica barocca e la prima compositrice della storia a scrivere un’opera: La liberazione di Ruggiero”.

Cammeo con ritratto di Francesca Caccini

Una fervente attività la si ritrova anche nei conventi femminili italiani che favorirono le ambizioni di alcune monache di estrazione aristocratica. Qui ritroviamo, ad esempio, Raffaella Aleotti (1570-1646) priora del convento di San Vito di Ferrara, autrice della prima raccolta di musica sacra pubblicata da una donna dal titolo “Sacrae cantiones”.

Al di fuori dell’Italia troviamo Elizabeth-Calude Jacquet de la Guerre (1666-1729) compositrice e clavicembalista francese, protetta da Luigi XIV si esibì spesso alla corte di Versailles e dedicò molte delle sue composizioni al Re Sole. In Germania spicca il nome di Amalia Catharina, contessa di Erbach, poetessa e compositrice, autrice di numerose liriche spirituali con basso continuo.


SETTECENTO

Nel Settecento furono proprio Francia e Germania a registrare un maggior incremento di donne compositrici; e come non citare Anna Maria Mozart, sorella del molto più famoso Wolfgang Amadeus. Conosciuta con il soprannome di Nannerl come suo fratello minore aveva un grande talento musicale, sia come eccellente pianista, sia come compositrice, ma nessuno dei suoi lavori è giunto a noi.

Italiana invece è la prima donna della storia ad ottenere nel 1774 il titolo di “maestro di cappella”. È Maria Rosa Coccia, ma tale incarico non le fu mai conferito. La sua è una storia che scatenò violente polemiche, che con il tempo sollevarono su di lei antipatie, egoismi, invidie e la condanneranno lentamente, ma inesorabilmente, all’oblio. Nessuno stampò la sua musica e le composizioni che inviò ai regnanti dell’epoca e personaggi illustri le valsero soltanto grandi elogi e attestazioni di stima e ammirazione. Non avrebbe mai potuto dirigere una sua composizione davanti a un pubblico, come era normale tra i suoi colleghi, e alla Coccia non restò che adattarsi a incarichi di insegnamento privato.

Maria Rosa Coccia

OTTOCENTO

Nell’Ottocento l’istituzione di conservatori aperti alle donne consentì ufficialmente alle compositrici la possibilità di una carriera pubblica. Il primo conservatorio di musica negli Stati Uniti, la Music Vale Academy, fu fondato nel 1835 allo scopo di insegnare musica alle donne.

Ora cominciano ad essere più numerose le donne che compongono musica e molte sono figlie, mogli o sorelle di più celebri musicisti. La più famosa è sicuramente Clara Wieck, moglie di Schumann, una delle poche donne ricordate nei libri di storia della musica. Bambina prodigio, debuttò a soli nove anni diventando in poco tempo una delle concertiste più acclamate e stimate in Europa. Molto giovane si innamorò di Robert Schumann che sposò raggiunta la maggiore età nel 1840. Fu sua fedele compagna per tutta la vita e musa ispiratrice. Musicalmente la sua tecnica pianista era straordinaria ed impeccabile, insegnò al Conservatorio di Francoforte dal 1878 al 1892. Fu anche una prolifica compositrice sin dalla tenera età: ha scritto opere di successo per pianoforte solo, per orchestra, musica da camera e Lieder, quest’ultimi ancora poco conosciuti e causa della loro frequente erronea attribuzione al marito.

Una volta credevo di avere talento, ma sto cambiando idea; una donna non dovrebbe desiderare di comporre, mai una è stata capace di farlo, dovrei essere io quell’una? Sarebbe arrogante crederlo. Le donne tradiscono sé stesse nelle loro composizioni, questo vale per me come per altre. Che sia Robert a creare, sempre! Questo solo deve rendermi felice

Clara Wieck
Clara Wieck Schumann

Un talento osteggiato fu quello di Fanny Mendelssohn (1805-1847), sorella maggiore del compositore tedesco Felix Mendelssohn-Barthodly. Fu autrice di molti Lieder, musica strumentale, cantate, oratori; musiche rimaste manoscritte per la resistenza impostale dal padre e dal fratello a riconoscerle il diritto ad una carriera pubblica di compositrice.


NOVECENTO

L’americana Clara Baur fu la prima donna a fondare un conservatorio, l’Università di Cincinnati College-Conservatory of Music, nel 1867. Il Novecento segna per le donne un maggior riconoscimento pubblico sia nel concertismo sia nella composizione.

In chiusura a questa breve e non esaustiva rassegna, un ricordo delle sorelle Boulanger. Nadia Boulanger (Parigi, 1887-1979) è stata un’importante compositrice, insegnate e direttore d’orchestra ed esercitò una grande influenza sui giovani compositori, soprattutto americani. Mentre la sorella Lilli Boulanger morì giovanissima nel 1918 lasciando pregevoli composizioni nel campo della musica corale, e fu la prima donna ad ottenere il prestigioso Prix de Rome.

Lilli Boulanger

Storie di donne che scardinando le costrizioni sociali e culturali hanno saputo dare un importante contributo alla musica e che, ancora oggi, non trovano il giusto spazio nella memoria collettiva.

musica

La musica potrebbe essere un linguaggio universale – L’esperimento indiano

Sull’universalità della musica se ne è parlato tanto e ne ho già scritto anche qui in due precedenti articoli (La Musica (non) è un linguaggio universale – parte 1 e La Musica (non) è un linguaggio universale – parte 2); molti studiosi di musica hanno analizzato a fondo il discorso cercando di trovare la soluzione ultima alla questione.

La pietra filosofale necessita tuttavia di numerose ricerche e di cambi di prospettiva nella nostra missione alchemica. È chiaro che la musica, per come la intendiamo noi occidentali, non può essere un linguaggio universale. Non possiamo pretendere che i pigmei “capiscano” Stravinskij o che i canti tribali degli aborigeni australiani possano essere pienamente compresi ascoltandoli nelle comode poltroncine rosse dei nostri teatri.

I contesti, la concezione, la cultura sono diversi e possiamo non possedere gli strumenti intellettuali per decodificare il messaggio. Ma è sempre così? Sì, a meno che non si cominci da zero e si cerchi di re-codificare il linguaggio e tramutarlo in una sorta di “esperanto” musicale, un linguaggio che sia talmente radicato nella nostra essenza umana da trascendere la cultura di appartenenza.

Il caso della musica classica indiana

Molto affascinante è il caso della musica classica indiana, o perlomeno della sua origine. Nel corso della sua storia l’India si è distinta, più che per un progresso a livello tecnologico, per un interesse e un’affinità con il mondo spirituale. Dalla medicina alla cucina, dall’attività motoria all’attività sessuale: tutto nell’antica India è stato visto come un possibile collegamento, un ponte, per una crescita interiore. Anche la musica.

Una prima caratteristica fondamentale della musica classica indiana, che la differenzia molto dalla nostra, è che non ci sono progressioni di accordi. Provate ad ascoltare l’esecuzione di un raga di Ravi Shankar e sentirete che tutto il messaggio musicale si muove all’interno di un unico bordone, un bicordo formato da tonica e quinta giusta e relative ottave (eseguito dalla tampura, strumento affascinante e magico che ci catapulta già dal primo arpeggio in un tempio nel Bengala).


Il contesto armonico è fisso, stabile, non si scosta da questo centro di gravità permanente per dirla con le parole di un altro grande saggio armeno (e già, non sono di Battiato, se siete interessati ne ho parlato qui). Questa è una grandissima differenza rispetto alla nostra musica di stampo occidentale. L’armonia porta ad atmosfere meravigliose, a cambiamenti di umore che sono stati codificati e intellettualizzati nel corso dei secoli dalla nostra cultura, ma che possono essere molto soggettivi. Per arrivare a un linguaggio universale dobbiamo spogliare il nostro codice da qualsiasi orpello e puntare all’essenza.

La seconda grande intuizione indiana è assegnare un significato (emotivo, magico o spirituale) a ciascun intervallo musicale. Proviamo a confrontare la tonica con la propria seconda minore. La sensazione è sgradevole, carica di tensione, tutta un’altra cosa rispetto al rapporto tonica e quinta giusta, un intervallo perfetto nella sua consonanza. La terza minore piange, esprime tristezza al contrario della gioia della terza maggiore.

Questo possiamo dirlo con una certa oggettività: mentre chiunque di noi può intuire e confermare queste sensazioni in maniera automatica basandosi sull’ascolto; gli studiosi dell’India sono andati oltre, codificando questo linguaggio e utilizzandolo come base di partenza per costruire qualcosa di nuovo.

Leonard Bernstein spiega gli intervalli


Per ogni intervallo musicale gli antichi studiosi della musica indiana hanno rilevato una funzione, un carattere determinato quasi con rigore scientifico, come tensione o risoluzione per dirla in termini occidentali. Su questo è stato costruito un sistema fondato più sulle scale e non tanto sull’armonia e sulla melodia come noi occidentali siamo portati a ragionare. La nota della scala indiana è stata studiata per uno scopo, per ottenere un effetto e così la concatenazione dei diversi intervalli tra loro. Ecco la grande quantità delle scale indiane che sono state raccolte per la loro funzione piuttosto che per la loro effettiva piacevolezza dell’ascolto.

Un sistema totalmente diverso dal nostro, evoluto in una sua precisa direzione e ci porta a riflettere sulla grandezza e sulla magia della musica nella sua diversità e universalità.


Leggi anche:
La Musica (non) è un linguaggio universale – parte 1
La Musica (non) è un linguaggio universale – parte 2

La musica potrebbe essere un linguaggio universale – I suoni binaurali
Vedere l’armonia: il suono si fa forma

musica

La prima chitarra della storia

La chitarra, acustica o elettrica, è uno degli strumenti più suonati e conosciuti. La sua popolarità è così grande che viene considerato a tutti gli effetti lo strumento più rappresentativo del XX secolo. Ma quando ha fatto il suo ingresso nella storia della musica? A quando risale la più antica chitarra che conosciamo? È una storia che inizia da molto lontano, circa 4.000 anni fa in Egitto.

La prima chitarra della storia, o meglio il primo antenato della chitarra, viene identificato con uno strumento ritrovato in una tomba egizia databile intorno al 1.500 a.C. (3.500 anni fa!)

Secondo uno studio di Nora Scott (egittologa e curatrice della sezione di arte egizia del Metropolitan Museum of Art di New York) questo strumento apparteneva ad Har-Mose che molto probabilmente faceva parte della corte di Sen-Mut (o Senenmut), architetto, capo di Stato e consigliere della regina Hatshepsut, uno dei personaggi più importanti nell’Egitto dell’epoca. Si dice anche che Sen-Mut fosse l’amante della regina ed è suo il progetto del maestoso tempio a terrazze di Deir el-Bahri, uno dei monumenti più belli dell’antico Egitto.

Il tempio di Deir el-Bahri
Il cantante Har-Mose

Sen-Mut volle assicurarsi di avere il suo musicista preferito accanto a sé nell’aldilà, come anche il suo cavallo e il suo animale da compagnia, una scimmia. Così si assicurò che Har-Mose venisse un giorno seppellito in una tomba accanto alla sua, e a sua volta Har-Mose si assicurò che accanto a sé venisse depositato anche il suo prezioso strumento.

Lo strumento è un lontano antenato della moderna chitarra, ha tre corde e si suonava con un plettro che è stato ritrovato legato al manico da un cordino. La cassa di risonanza era in legno di cedro lucidato e aveva una tavola armonica in pelle grezza. Oggi è conservato al Museo Archeologico del Cairo.

Lo strumento di Har-Mose

La tomba di Har-Mose è dello stile tipico di un uomo di umili origini, ma con qualcosa di molto importante in più, un’incisione che riporta il suo nome: lì è sepolto “il cantante Har-Mose”. Ecco spiegato come mai accanto a sé avesse uno strumento musicale. Non era un cantante e un musicista qualsiasi, ma alcuni studiosi (come Bernard Shaw, dipartimento di “Pathology of the Egyptian University” del Cairo) non sono certi che fosse legato alla figura dell’importante architetto Sen-Mut; se fosse un suo servitore o se ci fosse qualche connessione, ma di certo morì in quel periodo e fu sepolto accanto alla sua tomba.


La tomba dell’architetto Sen-Mut

La storia si fa ancora più affascinante perché la tomba dell’architetto Sen-Mut (che si è costruito accanto al maestoso tempio di Deir el-Bahri) fu scoperta quasi casualmente nel 1927 e ha attirato l’attenzione degli studiosi di mezzo mondo. È posizionata e costruita in modo da non essere ben visibile, quasi la si volesse in qualche modo nascondere. L’aspetto più interessante ed unico è il soffitto interno, ricoperto da un’affascinante raffigurazione dell’universo allora conosciuto, compreso un bellissimo e preciso calendario lunare.

In particolare, in una zona del soffitto sono raffigurate le tre stelle della cintura di Orione con una quarta stella posizionata di fronte alle stesse. L’esatta riproduzione in scala delle piramidi e della sfinge nella piana di Giza! Qui il mistero si infittisce ancor di più e si lega addirittura a ipotetici messaggi in codice legati a civiltà aliene, ma questa è un’altra storia…

https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/a4/Senenmut.jpg
Il soffitto della tomba di Sen-Mut