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I Carmina Burana: giocando a scacchi con la Fortuna

Qualche giorno fa in una bella serata di fine luglio ho avuto il piacere di ascoltare i Carmina Burana di Carl Orff. Un concerto suggestivo, affascinante, da cui è nata una mia recensione per la rivista “Le Salon Musical” che potete leggere qui.

Continuo però a riflettere. I Carmina Burana sono tra le pagine di musica classica più conosciute dal grande pubblico. Tutti abbiamo ascoltato almeno una volta (ma sicuramente più di una) l’apertura trionfale dell’opera con l’epico coro di O Fortuna. L’influenza dei Carmina Burana si estende ben oltre il mondo musicale: ha ispirato una vasta gamma di opere artistiche, dalle performance teatrali e coreografiche alle colonne sonore di film e pubblicità. La loro musica epica e coinvolgente è stata adottata in numerosi contesti, diventando un simbolo universale di passione e vitalità.

Una riflessione sulla Fortuna che governa il mondo

Le poesie medievali del XII e XII secolo musicate poi nel Novecento da Carl Orff si fanno veicolo di una riflessione sulla Fortuna che governa il mondo, oggi più che mai attuale e profonda. Viviamo in tempi complessi, incerti, con eventi imprevisti e sconvolgenti che possono cambiare radicalmente il corso delle nostre vite. I 24 testi dei Carmina Burana affrontano temi fondamentali dell’esistenza umana, mettendo in luce la nostra vulnerabilità, i desideri, le speranze e le paure. Sentimenti e situazioni che si ripetono costantemente nella storia. Tutti gli uomini sono rappresentati, in una dimensione senza tempo né spazio, nella quale anche Re e Papa si trovano immersi in un turbinio insieme alla gente comune.

La storia dei Carmina Burana: dal passato al presente, da Medioevo a Novecento

I Carmina Burana devono gran parte della loro grandezza alla preziosa raccolta di poesie medievali da cui prendono il nome.  La collezione comprende 325 testi poetici in latino, antico tedesco e francese, scritti fra il XII e il XIII secolo e contenuti nel manoscritto denominato Monacensis Latinus 1660, custodito dal 1803 nella Biblioteca Nazionale di Monaco di Baviera. Fu chiamato Buranus in quanto proveniente dall’abbazia bavarese di Benediktbeurn (Bura Sancti Benedicti) e giunse a Monaco in seguito all’editto napoleonico che decretava la secolarizzazione dei monasteri.

Il manoscritto è impreziosito da raffinate illustrazioni sulle tematiche trattate: il destino beffardo e padrone assoluto delle nostre vite, il rapporto con la natura, il gioco, il vino, l’amore fugace e quello autentico. Probabilmente i componimenti vennero prodotti in un’area geografica compresa tra la Germania sud-orientale, l’Austria occidentale ed il Tirolo dai clerici vagantes: giovani poeti e studenti itineranti che esprimevano liberamente le loro esperienze di vita, il desiderio di amore e piacere, e la riflessione sulla condizione umana.

Il compositore tedesco Carl Orff decise di mettere in musica una selezione di questi componimenti e iniziò la stesura il Giovedì Santo del 1934. Era venuto a conoscenza del manoscritto Buranus per un fortuito caso, era rimasto così affascinato dalla profondità e dalla varietà dei testi da comporre di getto i primi due dei ventiquattro brani che costituirono il lavoro finale. L’opera (una Cantata scenica, per soli coro e orchestra) fu eseguita per la prima volta nel giugno del 1937 ricevendo immediatamente un’entusiastica accoglienza da parte del pubblico e della critica.

Il sottotitolo originale recita: “Canzoni profane da cantarsi da cantori e dal coro, accompagnati da strumenti e immagini magiche”.

Non solo “O Fortuna

I Carmina Burana di Orff sono divisi in tre parti ognuna delle quali racchiude una varietà di brani, dal coro alle arie solistiche e ai duetti. La partitura orchestrale è dominata da percussioni potenti, mentre i cori collettivi e i solisti si alternano a esprimere la gamma di emozioni presenti nei testi.

La prima parte, “Primo Vere” (In Primavera), celebra l’arrivo della primavera, la bellezza della natura e la gioia del vivere. Questi brani esplorano il tema dell’amore e della passione, invitando gli ascoltatori a lasciarsi trasportare dalle emozioni della stagione della rinascita. In questa sezione troviamo la parte più famosa e conosciuta dell’opera: la celeberrima apertura trionfale del coro “O Fortuna”.

Omnia sol temperat
purus et subtilis
novo mundo reserat
faciem Aprilis;
ad amorem properat
animus herilis
et iocundis imperat
deus puerilis.
Tutto riscalda il sole puro e delicato nuovamente si svela al mondo il volto di Aprile,
aspira all’amore l’animo dell’uomo e con gioia comanda il dio fanciullo. (da: “Omnia sol temperat”)

La seconda parte, “In Taberna” (Nella Taverna), offre un contrasto vivace e goliardico con canti che esaltano l’allegria della convivialità e della festa in una taverna medievale. L’atmosfera è contagiosa e i ritmi coinvolgenti spingono il pubblico a dondolarsi al ritmo della musica.

In taberna quando sumus,
non curamus quid sit humus,
sed ad ludum properamus,
cui semper insudamus.
Quid agatur in taberna,
ubi nummus est pincerna,
hoc est opus ut queratur,
si quid loquar, audiatur.
Quando siamo nella taverna, non pensiamo a quando saremo polvere, ci diamo al gioco senza tregua.
Quel che accade nella taverna, dove comanda il denaro, si farebbe bene a chiederlo, chi risponde, sarà ascoltato.
(da: “In taberna quando sumus”)

La terza e ultima parte, “Cour d’Amours” (Il Tribunale dell’Amore), introduce una dimensione più intima e riflessiva. Qui i canti esplorano l’amore e le relazioni umane, rivelando il lato più tenero e vulnerabile dell’esistenza umana.

Amor volat undique;
captus est libidine.
Iuvenes, iuvencule
coniunguntur merito.
Siqua sine socio
caret omni gaudio;
tenet noctis infima
sub intimo
cordis in custodia:
fit res amarissima.

Amore vola ovunque; richiamato dal desiderio. Fanciulli e fanciulle si uniscono secondo natura. Alla fanciulla priva di amante, manca ogni fonte di gioia; la possiede la notte oscura nascosta nelle profondità del cuore: è la cosa più amara. (Amor volat undique)

E come tutto inizia, così tutto ha una fine. Il famosissimo brano di apertura “Fortuna Imperatrix Mundi” torna a chiudere l’opera. È proprio la Dea Fortuna, con la sua ruota girevole, a fare da perno per tutta la rappresentazione: il destino di tutti gli uomini inizia e finisce con la sua inappellabile legge.

Il lascito dei Carmina Burana: un’eredità duratura

I Carmina Burana di Carl Orff hanno lasciato un’impronta indelebile nel panorama musicale e culturale. La loro straordinaria bellezza e potenza li hanno resi un’icona della musica classica del XX secolo e un’opera di riferimento nel repertorio corale e sinfonico.

Oggi, a decenni dalla sua creazione, l’opera continua a conquistare i palcoscenici di tutto il mondo, suscitando l’ammirazione di nuove generazioni di spettatori. La sua capacità di parlare a ogni persona, indipendentemente dalla sua provenienza o formazione culturale, ne fa un capolavoro senza tempo, un ponte tra passato e presente, tra realtà e fantasia. Anche se l’immaginario collettivo si limita spesso all’apertura trionfale di O Fortuna.

In un’epoca in cui il mondo è affrontato da sfide globali come crisi economiche, pandemie, cambiamenti climatici e instabilità politica, l’opera di Orff ci invita a riflettere sulla nostra relazione con il destino e la casualità. Ci sfida a confrontarci con la realtà imprevedibile della vita, quasi una partita a scacchi con la Fortuna richiamando il celebre film di Ingmar Bergman.

I Carmina Burana di Carl Orff sono più di una semplice opera musicale. Sono un viaggio emozionante e universale, un’esperienza che ha attraversato i secoli per toccare il cuore di chiunque si lasci affascinare dalla loro straordinaria bellezza. La loro fama e diffusione planetaria sono la testimonianza della loro grandezza e della loro capacità di parlare al profondo dell’anima umana.

O Fortuna,
velut Luna
statu variabilis,
semper crescis
aut decrescis;
vita detestabilis
nunc obdurat
et tunc curat
ludo mentis aciem,
egestatem
potestatem
dissolvit ut glaciem.

Sors immanis
et inanis
rota tu volubilis
status malus
vana salus
semper dissolubilis,
obumbrata
et velata
mihi quoque niteris;

Nunc per ludum
dorsum nudum
fero tui sceleris.
sors salutis
et virtutis
mihi nunc contraria
est affectus
et defectus
semper in angaria.

Haec in ora
sine mora
corde pulsum tangite;
quod per sortem
sternit fortem
mecum omnes plangite

O fortuna come la luna cambi forma, sempre tu cresci o cali; la vita detestabile ora perdura salda e ora occupa l’ingegno con un gioco, la miseria e il potere dissolve come ghiaccio. / Fortuna immane e vuota tu ruota che giri funesto stato futile benessere sempre incerto oscura e velata sovrasti pure me; / Ora al tuo capriccio offro il mio dorso nudo. La Fortuna ed il successo ora mi sono avverse, difficoltà e privazioni mi tormentano. / In questa ora, senza indugio risuonino le vostre corde; piangete tutti come me: a caso ella abbatte il forte!

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Alla Biennale Arte 2022 vince la musica (parte 2)

Sono stata alla Biennale di Venezia qualche giorno fa e girando tra i vari padiglioni nazionali la musica mi ha sommersa. Non solo nel padiglione Gran Bretagna, vincitore del Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale con “Feeling Her Way” di Sonia Boyce; un’installazione che indaga musica e identità, improvvisazione e libertà. Ne ho già parlato qui: Alla Biennale Arte 2022 vince la musica (parte 1).

Uno dei luoghi che più mi ha stupito e affascinato è un piccolo padiglione, a Campo della Tana, proprio di fronte alle porte d’ingresso dell’Arsenale. Ad entrata libera. Era un appartamento veneziano della classe operaia, uno spazio che conserva le memorie dei suoi precedenti inquilini, offrendo un rifugio temporaneo al Padiglione Nazionale dell’Armenia.

Padiglione Armenia

Un padiglione collocato in un luogo diverso, non nelle due sedi centrali dell’Arsenale o dei Giardini. Un padiglione dove la Musica è protagonista di una riflessione su concetti come estraneità e appartenenza.

Andrius Arutiunian, artista e compositore armeno-lituano classe 1991, ha intitolato questo progetto Gharīb. Una parola dalle origini quasi criptiche, nata tra le terre del Caucaso e del Medio Oriente che si traduce come “lo straniero che entra nella nostra cerchia”. Lavorando con forme ibride di suono, creando strutture auree e fonti di suono sintetico, ha voluto rendere in musica un senso di appartenenza e straniamento che permea gli immaginari arabo, armeno e farsi. Gharīb è un termine associato ad attività sommerse e clandestine di produzione musicale, centri ricreativi illegali, commerci di sostanze psicotrope e marginalità politica.

Accordature alternative e modalità di dissenso sonoro creano una forma di dissonanza rispetto alle interpretazioni, tanto musicali quanto politiche, di tempo, ritmo e sintonia influenzate dall’Occidente. Affiora una partitura musicale, costellata delle voci sommesse degli inascoltati, degli scomparsi e dei radicali.

“Gharīb, dissonanza e liminalità, un modo di ritracciare i margini politici. Un’oscillazione radicale tra dissenso e accordo. Integrarsi e scomparire, esistere ed evaporare allo stesso tempo, riscoprire il mondo. Ecco allora cosa fare, non farsi ingannare da ciò che è reale. Optare invece per sistemi disordinati di elusività. Schivare l’ordine pervasivo, risintonizzarsi e poi dissiparsi completamente.”

You Do Not Remember Yourself

Arutiunian mette in atto questa riflessione attraverso diverse installazioni musicali, come “You Do Not Remember Yourself”. Un enorme strumento musicale di sei metri formato da una sottile lamina di ottone ricurva e flessibile (You do not remember yourself: non ricordarsi di se stesso). Dei microfoni e degli altoparlanti a contatto con la lastra d’ottone trasmettono il suono (si tratta di registrazioni vocali distorte, manipolate elettronicamente) facendo vibrare il metallo che così diventa lo strumento stesso di trasmissione sonora, uno strumento musicale che suona di risonanze naturali e diafonia. Una curiosità: se si tocca la lastra d’ottone la si sente vibrare chiaramente e il suono varia.

Andrius Arutiunian, You Do Not Remember Yourself, brass instrument, 1x6m, surface transducers, sound, 2022

Seven Common Ways of Disappearing

Camminando tra le stanze di questo ex appartamento veneziano, si arriva all’installazione centrale presente nell’ex molo dal titolo “Seven Common Ways of Disappearing”. La stanza è vuota, tranne per un giradischi, un amplificatore stereo e due casse che riproducono continuamente, per tutto il giorno, la musica di un vinile. Sulla parete opposta sono riprodotti due strani disegni geometrici: è la partitura, trascritta in un enneagramma.

L’enneagramma è una figura formata da un cerchio che include un triangolo equilatero intersecante una figura a sei lati. I punti che toccano il cerchio sono collegati da linee e frecce in entrambe le figure interne. Un sistema introdotto per la prima volta in Occidente dal mistico e filosofo armeno-greco Georges Ivanovich Gurdjieff intorno al 1913. Gurdjieff lo utilizzava per descrivere l’ordine cosmico dell’universo e per trovare equilibrio nei differenti lati della natura umana. Il suo intento era risvegliare l’uomo a uno stato di coscienza superiore, renderlo consapevole della sua personalità meccanica e attivare la sua parte più essenziale.

Nell’installazione di Arutiunian la partitura è scritta in un enneagramma: si tratta quindi di una partitura aperta (per pianoforte con accordatura differente rispetto alla tradizione musicale occidentale) indefinita nella durata: gli esecutori sono chiamati a trovare proprie strade all’interno delle regole musicali.
La versione presente nel vinile la potete ascoltare cliccando qui.

Si torna ancora una volta al concetto di musica e identità, presente anche nell’installazione di Sonia Boyce al Padiglione Gran Bretagna. Ancora una volta la dimostrazione di come e di quanto la musica sia un forte mezzo di affermazione della nostra identità. La Sociologia della Musica ha studiato come l’esperienza musicale svolga un ruolo importante nella formazione e nell’affermazione di identità individuali e collettive, nel raccontare chi siamo.

La cosmologia del Padiglione Gharīb ruota attorno alle modalità del dissenso sonoro, delle conoscenze vernacolari e dei sistemi disordinati di elusività. Canzoni di origine illecita, altri sistemi di accordatura, estrazione del petrolio e Cher con i suoi trucchi di autotuning, l’armonica legge del sette e i sistemi divini di digestione di Gurdjieff. Emerge una certa partitura musicale, punteggiata dalle voci sommesse del non sentito, dello scomparso e del radicale.

Andrius Arutiunian

Padiglione Francia – I sogni non hanno titolo

Dopo Armenia e Gran Bretagna, la musica è protagonista anche del Padiglione Francia, premiato con una menzione speciale. L’artista franco-algerina Zineb Sedira propone Les rêves n’ont pas de titre (I sogni non hanno titolo), un lavoro che trasforma il padiglione francese in un ensamble di set cinematografici.

All’origine dell’installazione cinematografica immersiva c’è il desiderio di lavorare con la musica, la letteratura e il cinema militante degli anni Sessanta e Settanta. Un periodo di fermento politico e culturale segnato dall’emergere delle prime co-produzioni tra Algeria, Italia e Francia.

Il Padiglione si trasforma in uno studio cinematografico e in una sala di proiezione. All’ingresso, sulla destra, troviamo subito un palco pronto ad accogliere una band; al centro un tipico bar parigino (ispirato al film Ballando, ballando di Ettore Scola), dove ci si può accomodare al bancone o sui tavolini in stile bistrot per sorseggiare un bicchiere di vino rosso, mentre una coppia di performer mettono in scena un tango passionale che segna l’inizio e la fine di un’effimera storia d’amore. A seguire la ricostruzione di un tipico salottino anni Cinquanta parla dell’intimità e del senso di protezione dell’ambiente domestico, arricchito da cimeli e poster dal sapore vintage, in cui campeggia tantissima musica.

Un’installazione immersiva che invita lo spettatore a danzare, a danzare per resistere, danzare per rinascere, danzare per sognare…. E i suoi sogni non hanno titolo.

Un pesce che suona la chitarra e la balena di Moby Dick

Tanta musica alla Biennale, talmente tanta da campeggiare addirittura sulla fotografatissima facciata del Padiglione Centrale dei Giardini. Qui troviamo le sculture di Cosima von Bonin (classe 1962, Kenya): squali e pesci di plastica che brandiscono chitarre elettriche, ukulele, sarong, tavole da surf, missili imbottiti con un tessuto a quadretti.

Dietro le colonne della facciata si trova Scallops (Glass Version), una coppia di capesante su un’altalena ed Hermit Crab (Glass Version), un paio di paffute chele di granchio avvinghiate a una betoniera. Giocando con questioni d’attualità quali il capitale, il tempo libero, il comfort e la prestazione individuale, von Bonin ironizza sui vezzi dell’arte contemporanea e della storia dell’arte, in modo particolare le leggendarie origini del readymade.

© Photos Haupt & Binder, Universes in Universe

Spostandoci all’Arsenale accanto all’ingresso del – bellissimo – Padiglione Italia, la musica si fa trovare ancora presente, ci attira sotto le capriate alte quasi 25 metri delle Gaggiandre, uno degli angoli magici dell’Arsenale.

La fonte sonora è l’installazione video e audio di Wu Tsang (classe 1982, USA) dal titolo Of Whales (2022). Uno schermo di 16 metri in cui viene proiettato un adattamento cinematografico del capolavoro di Herman Melville Moby Dick e ambienti oceanici psichedelici generati mediante tecnologie di realtà estesa (XR). La durata totale è di 6 ore. Lasciarsi avvolgere dalla musica e immersi da immagini psichedeliche che si specchiano sulle acque di queste due imponenti tettoie realizzate tra il 1568 e il 1573, è quasi magia.

Il mio viaggio nella musica della 59a Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia termina qui.
Mi è sfuggito qualcosa? Scrivetemi nei commenti!

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Alla Biennale Arte 2022 vince la musica (parte 1)

british pavillion biennale 2022

Una visita alla Biennale Arte vale sempre il viaggio. Specialmente in un’edizione in cui a vincere il prestigioso Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale è un padiglione immerso di musica. Suona strano? La Musica è Arte, e forse questo viene troppo spesso dimenticato.

Il Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale alla 59 Biennale di Venezia è stato vinto dal Padiglione Gran Bretagna firmato Sonia Boyce. “Feeling Her Way” avvolge il visitatore in un collage dinamico di suoni e immagini, rinfrangendo e trasfigurando identità, storie e futuri. Un’opera immersiva e sonora. Un enorme studio di registrazione.

Esplorare nuovi spazi sonori

“Feeling Her Way” è una vibrante installazione incentrata sulle performance vocali di quattro musiciste. Attraverso una serie di video con filtro colore diverso, incontriamo quattro cantanti britanniche Black dalle voci straordinarie: Jacqui Dankwort, Poppy Ajudha, Sofia Jernberg Tanita Tikaram ed Errolyn Wallen. Sono state riprese in diretta mentre improvvisavano insieme per la prima volta ai microfoni di uno dei più importanti studi di registrazione del mondo: gli Abbey Road Studios di Londra.

British Pavilion, Room 1 – Image Cristiano Corte © British Council

Le quattro voci si fondono l’una nell’altra esplorando nuovi spazi sonori immaginandosi sotto forma di oggetti e animali.  Si abbandonano a un processo creativo non immune da errori e dissonanze, se non addirittura vere e proprie cacofonie. Le imperfezioni e i contrasti sono visti come espressioni della creatività e della vita reale.

L’interesse di Sonia Boyce è osservare il modo in cui rispondiamo, come impariamo, come ascoltiamo, come assistiamo allo sviluppo dei rapporti con gli altri.

Ciò che desidero nel farvi incontrare è indagare come possiate sentirvi liberi. Che tipo di condizioni vi servono per sentirvi liberi di esprimere voi stessi quando noi siete limitati da ciò che gli altri pensano che dovreste o potreste essere? Cosa significa essere liberi… e come potreste comportarvi?

Sonia Boyce

E il mezzo con cui Boyce ha voluto realizzare questa riflessione è la Musica.

Musica è identità, improvvisazione è libertà

La musica che è un forte mezzo di affermazione della nostra identità. La Sociologia della Musica ha studiato come l’esperienza musicale svolga un ruolo importante nella formazione e nell’affermazione di identità individuali e collettive, nel raccontare chi siamo.

L’improvvisazione musicale viene qui studiata da Sonia Boyce come un’opportunità per la libera espressione tra musicisti, e un invito al pubblico per riflettere su quanto la voce possa rivelare della nostra identità. Sono vocalizzi senza parole, puri suoni improvvisati con immaginazione e giocosità; una musica che sovverte le dinamiche interpersonali. I nostri istinti per la musica sono radicati nell’infanzia dell’umanità, le forme musicali che erano disponibili agli uomini primitivi (la voce e il corpo) esercitano ancora oggi un’influenza primaria inevitabile.

Una tangibile dimostrazione di come la musica riesce a ridurre la distanza tra le persone, anche solo attraverso il suono di una voce.

L’oro degli stolti

Un’ultima curiosità. Le pareti di tutte le cinque stanze del Padiglione Britannico sono rivestite da carta da parati a incastro a creare un legame continuo tra le varie sale. Si incontrano anche molti oggetti geometrici dorati che fanno riferimento alla pirite, forme cristalline uniche che si producono in tutto il mondo. Eppure, la pirite è chiamata “l’oro degli stolti”. Boyce in un modo molto sottile solleva un importante interrogativo: l’abitudine di giudicare attraverso un confronto in chiave negativa.

British Pavilion, Room 4 – Image Cristiano Corte © British Council

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Una musica per sopravvivere

filo spinato campo concentramento

La Musica si può analizzare scientificamente e oggettivamente come suono, possiamo parlare della sua altezza, del timbro, della durata; possiamo discutere nota dopo nota della tecnica compositiva del brano musicale, ma non si riesce mai pienamente a valutare quale impatto determinerà nell’ascoltatore.

John Sloboda, musicologo e rappresentante della Psicologia Cognitivista, afferma che «vista con il freddo occhio del fisico, un evento musicale è solo una raccolta di suoni di varia altezza, durata, e altre qualità misurabili. In qualche modo, la mente umana attribuisce a questi suoni un significato. Essi diventano simboli per qualcos’altro che va al di là del puro suono, qualcosa che induce a piangere o a ridere, che piace o dispiace, che commuove o lascia indifferenti.»  

La Musica è un’arte invisibile, impalpabile, eppure così potente da riuscire a toccare nel profondo il nostro animo. La Musica alle volte ha la capacità di far viaggiare nello spazio e nel tempo, di far rivivere un ricordo passato o trasportare in un altrove immaginario.

La musica può diventare una via di fuga: una frase che si può leggere in chiave romantica e fantastica, ma che tristi pagine di Storia hanno reso reale. La musica durante la Seconda Guerra Mondale nei campi di prigionia e di sterminio nella Germania nazista è stata per molti una via di fuga, sopravvivenza o dolce oblio.

La musica nei campi di concentramento

La musica composta nei campi di concentramento è una pagina ancora poco conosciuta. C’era musica, ma utilizzata per le finalità più bieche. I nazisti se ne servivano per mantenere l’ordine e la calma o per nascondere urla ed esecuzioni. Al suono di allegre marcette e canzoni popolari, i deportati venivano accompagnati dai treni della morte fino alle camere a gas. Oppressi, perseguitati, ridotti a morti che camminano: la musica fu un’ancora di salvezza, un atto di resistenza alla morte, una via per sopravvivere capace di dar loro speranza anche nel fondo dell’abisso.

Nei campi furono deportati anche grandi musicisti e compositori che hanno continuato a coltivare la passione per la musica suonando e componendo; alle volte di nascosto, qualche volta con il favore delle guardie. Era l’unica via di fuga all’orrore quotidiano, un atto di forte affermazione della propria umanità e di resistenza alla morte.

Molto spesso non si aveva a disposizione carta su cui scrivere e gran parte di queste pagine di musica sono state ritrovate in pezzi di stoffa, carta igienica, sacchi di juta oppure tramandate per via orale sperando che qualcuno sopravvivesse all’orrore del campo.

In particolare, nei campi di concentramento dove si trovavano prigionieri politici non era permesso scrivere musica. In altri invece esistevano addirittura delle orchestre, divise per genere (o tutte maschili o tutte femminili) solo a Theresienstadt c’era un’orchestra mista; a Buchenwald c’era una di 80 elementi, ad Auschwitz invece ben sette.

Un mezzo sublime per il più perverso degli scopi

Che fosse concesso suonare e avere strumenti musicali non va letto come un gesto di generoso disinteresse: la musica veniva utilizzata come mezzo sublime per il più perverso degli scopi. Ad esempio, il famoso musicista polacco Artur Gold deportato a Treblinka fu ricevuto con tutti gli onori, gli venne concessa un’orchestra con cui allietò i militari e poi fu ucciso.

Disarmante la storia di Ilse Weber, un’ebrea ceca, scrittrice di poesie e favole per bambini. Il 6 ottobre 1944 accompagnò suo figlio Tomáš e altri bambini nelle docce di Auschwitz; la guardia delle SS le consigliò di sedersi per terra coi bambini e cantare con loro, in modo da inalare il gas più in fretta e morire prima che si diffondesse il panico. Anni dopo il marito, sopravvissuto, ha ritrovato accanto a un capanno degli attrezzi a Theresienstadt le opere di Ilse: le aveva sotterrate lì nella speranza che qualcuno un giorno le trovasse.

Il testo della canzone “Wiegala” è in lingua ceca, la lingua della sua casa, una dolce melodia composta da Ilse Weber che è rimasta nella memoria come un simbolo del massacro di tutti gli innocenti. La musica è tutto ciò che ai deportati restava e spesso tutto ciò che resta di loro.

Ilse Weber – Wiegala (canta: Anne Sofe Von Otter)

La musica prodotta in cattività aveva poteri taumaturgici, rovesciava letteralmente le coordinate umanitarie dei siti di prigionia e deportazione, polverizzava le ideologie alla base della creazione di Lager e Gulag. Forse non salvava la vita, ma sicuramente questa musica salverà noi.

Francesco Lotoro

Un grande e lungo lavoro di ricerca nel ritrovare e documentare queste preziose pagine di musica è stato compiuto dal musicologo e pianista Francesco Lotoro. Un’impresa che dura da più di trent’anni grazie a cui ha recuperato oltre 5.000 composizioni musicali nate nei lager nazisti e nei campi di prigionia della Seconda Guerra Mondiale. Testimonianze di inestimabile e altissimo valore umano: musiche di libertà, musiche per salvare la propria vita e l’unica virtuale via di fuga dall’orrore quotidiano.

La scrittrice francese Marguerite Yourcenar disse: «la musica mi trasporta in un mondo in cui il dolore non smette di esistere, ma si allarga, si placa, diventa insieme più calmo e più profondo». Così per gli ebrei prigionieri la musica era sostegno, un modo di darsi forza l’un l’altro. Se gli uomini scompaiono, la musica però sopravvive e così noi oggi possiamo ascoltare la voce di un’arte che canta la tragica vicenda dell’occidente sull’orlo dell’abisso.

Per un approfondimento consiglio il libro “Un canto salverà il mondo” di Francesco Lotoro.

Leggi anche:
Futura di Lucio Dalla è solo una canzone
Perché ascoltare musica ci fa stare bene?

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Quando Beethoven aprì partita iva

Ludwig van Beethoven. Non servono presentazioni. È un artista che tutti conosciamo, o per lo meno di cui abbiamo sentito parlare; impossibile non aver mai ascoltato anche solo le prime note dell’immortale Quinta Sinfonia. Un pilastro della storia della Musica.

Parlando di Beethoven troppo spesso ci si sofferma sulla sua sordità, sulla sua solitudine, sulla sua eroica decisione di non soccombere alla disperazione e di affrontare il destino avverso.

Forse non si sottolinea abbastanza il fatto che le sue opere furono la prima manifestazione musicale dell’età moderna, non solo a livello tecnico musicale. Beethoven è il primo musicista della storia della musica che si considera investito di una missione, che si sente intenzionato a sviluppare appieno le proprie capacità artistiche e che si sente portatore di un messaggio da tramandare al pubblico al di là del tempo. 

È l’inizio di una nuova storia della musica.

TEMPESTA E IMPETO

Quando nacque Beethoven (Bonn, 16 dicembre 1770), il mondo culturale e letterario della Germania e dei piccoli stati che la formavano stava subendo la forte influenza del movimento chiamato Sturm und Drang (tempesta e impeto) guidato dal poeta e filosofo Johann Gottfried von Herder. Vi parteciparono molti scrittori e artisti, come Johann Wolfgang Goethe e Fredrich Schiller.

Il movimento sottolineava l’importanza di identità, linguaggio e arte nazionali e dava grande valore alla libertà personale e all’eroica resistenza agli oppressori. Sosteneva una sintesi di idee romantiche, classiche e illuministe. Il mondo musicale, come quello letterario e artistico, espresse questi ideali in sinfonie e musica vocale.

IL MUSICISTA LIBERO PROFESSIONISTA

Ad inizio Ottocento ci fu un declino del mecenatismo, sia delle grandi corti sia della Chiesa, che fino ad allora era stato determinante nella storia della Musica, e iniziò l’emancipazione dell’artista. Un cambiamento favorivo dalla nascita del mercato musicale, dal crescere della nuova classe sociale della borghesia e della richiesta di musiche sempre nuove ed accessibili ai tanti dilettanti (ovvero coloro che si approcciavano alla musica per diletto).

Si cominciò quindi a delineare la figura del musicista professionista che viveva dalle entrate procurate dal suo lavoro. Per usare un termine dei tempi d’oggi si potrebbe dire il musicista divenne un “libero professionista” ed ecco un Beethoven che, con un prosaico parallelo, aprì la partita iva.

Il musicista ora vive delle entrate procurategli dalle sue composizioni, dalle commissioni alla vendita delle sue opere stampate; dall’insegnamento di tipo privato, favorito dalla borghesia e dallo sviluppo della musica da salotto; e dal concertismo, inteso non più come accademica esibizione virtuosa, ma come contributo interpretativo alla comprensione dell’opera d’arte.

Cresce di importanza la figura dell’autore, piuttosto che dell’esecutore e del virtuoso, con una drastica diminuzione della musica composta a favore della qualità. Il libero mercato concorrenziale ha contribuito alla diversificazione stilistica come non succedeva in precedenza: innovazione e originalità diventano prioritarie.

«Mai era accaduto prima che l’arte di un musicista si addentrasse tanto nelle passioni, negli entusiasmi e negli ideali del suo tempo. Che la musica partecipasse direttamente al modo delle idee, al travaglio spirituale, allo stesso divenire politico di un’età. Ciò fondò l’immensa popolarità di Beethoven e determinò addirittura un nuovo indirizzo nella vita musicale.

Beethoven è il nocciolo attorno al quale si forma l’organizzazione dei concerti del mondo intero. Con l’indipendenza della vita egli mutò la condizione sociale del musicista, rifiutando di essere, come i suoi predecessori, il famiglio o il cliente di una casa gentilizia; con l’arte, egli diede un nuovo significato sociale alla musica sinfonica e strumentale, che strappò dall’ambiente chiuso delle accademie aristocratiche, e divulgò in quel ceto borghese che stava per ereditare la condotta del mondo». (Massimo Mila, “Breve storia della musica”, Einaudi, Torino, 1977, p. 204)

L’INIZIO DELLA MODERNITÀ

Beethoven oggi è uno degli esponenti del periodo “Classico” della storia della Musica: quel momento che si colloca dopo il Barocco e prima del Romanticismo, tra il 1750 e il 1820 circa, i cui altri massimi esponenti sono stati Haydn e Mozart.

Beethoven, oggi emblema della Classicità, è stato un musicista rivoluzionario: le sue opere sono considerate la prima manifestazione musicale dell’età moderna. Si può leggere questo momento della storia come l’inizio della modernità, nel senso di una visione concettualmente contemporanea di come oggi si considera la musica e il musicista.

Ogni composizione musicale ora impegna a fondo la personalità dell’autore, secondo una concezione nuova dell’originalità artistica. Compare una nuova possibilità storica: poiché il musicista può non dover più rendere conto né ai padroni né agli ascoltatori, ma soltanto all’umanità e alla storia, si sente libero di comporre soltanto ciò che considera esteticamente e tecnicamente adeguato, valido e bello.

Si entra nella modernità quando un compositore inventa nuovi procedimenti di scrittura senza preoccuparsi di come verranno percepiti e compresi.

L’entusiasmo e la saldezza ideologica del Beethoven più tipico esercitarono per tutto il secolo un fascino irresistibile: la trasformazione di Beethoven in monumento non è solo dovuta alla sua creatività musicale, ma anche alla sua statura umana. [Carl Dahlhaus]

Leggi anche: Beethoven e Kandinskij: la Quinta Sinfonia in due linguaggi differenti

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Con la musica (non) si mangia

coltelli musica

Domanda: “Che lavoro fai?”
Risposta: “Il musicista!”
Domanda: “Sì… ok… ma di lavoro, per vivere, cosa fai?”

Vi sembra un dialogo no sense? Ahimè, invece, è molto più vero di quanto si possa pensare… molto, molto di più. Che quello del musicista spesso non venga considerato come un lavoro e che con la cultura in Italia “non si mangia” non è una novità. La discografia sta vivendo una crisi che perdura ormai da moltissimi anni, che sia per colpa dello streaming, che sia per colpa di tante altre dinamiche che hanno stravolto il mercato e il music business.

Non è però questo l’articolo in cui troverete un elenco di numeri e percentuali deprimenti. Bensì scoprirete che molto tempo fa con la musica si mangiava, letteralmente intendo!

I COLTELLI “CANTERINI”

Quella dei “coltelli canterini” è una scoperta affascinante e ammantata di mistero Sono dei coltelli, delle posate vere e proprie, di epoca rinascimentale con una particolarità che li rende unici: hanno degli spartiti musicali incisi sulle loro lame.

Sono splendidi e rari capolavori dell’artigianato italiano del XVI secolo, oggi custoditi nei musei di tutto il mondo, come il Victoria & Albert Museum di Londra, il Museo Fitzwilliam di Cambridge e il Louvre di Parigi. Il manico è in avorio finemente intarsiato con inserti in ottone e argento; la lama in acciaio è lunga come un tagliacarte e larga quasi quanto quella di coltello da macellaio.

La caratteristica che li rende unici è la presenza di una notazione musicale incisa su entrambi i lati della lama con il testo in lingua latina. Da un lato una benedizione da cantare all’inizio del pasto (ad esempio: “Benedictiao Mensae. Quae sumpturi sumus benedicat trinus et unus”), girandolo dall’altro lato si trova invece una preghiera di ringraziamento da cantare alla fine (ad esempio: “Gratiarum Acto. Pro tuiis beneficiis deus gratias agimus”).

I coltelli riportano inoltre il registro vocale con cui si doveva intonare la melodia: tenore, basso, contralto, soprano.

Tutti questi elementi suppongono quindi un utilizzo devozionale, presumibilmente attorno alle ricche tavole della nobiltà italiana del Rinascimento, a metà tra la preghiera e il canto.

LE IPOTESI SUL LORO UTILIZZO

Molti studiosi si sono interrogati sul reale utilizzo di questi particolarissimi coltelli musicali. Kirstin Kennedy, curatrice del Victoria & Albert Museum (dove ne è presente una ricca collezione) osservandone la lama affilata, ipotizza che venissero utilizzati per tagliare la carne, o forse più certamente che servissero per presentare la carne ai commensali. Con l’estremità appuntita si sarebbe poi infilzata la fetta di carne. Nelle feste nobili del tempo, i commensali non tagliavano la propria carne, ma avevano dei servitori che lo facevano per loro. Era una delle tante regole dell’etichetta dell’epoca.

clicca qui per visualizzare l’intervista a Kirstin Kennedy, curatrice del Victoria & Albert Museum di Londra

Le melodie incise nei diversi registri vocali suggeriscono che venissero cantati dai commensali insieme, ad inizio e fine pasto, formando un coro unico e coeso. Questo suppone però che la servitù nell’apparecchiare la tavola dovesse tener conto di quale coltello abbinare a ciascun ospite. Ma anche che tutti sapessero leggere la musica, intonare quei canti e che, a fine pasto, si dovesse ripulire la lama per eseguire la melodia incisa nel “lato b”.

Alcuni studiosi hanno lanciato l’ipotesi che fossero invece dei singolari segnalibri, intuizione dovuta anche al fatto di aver ritrovato un coltello “canterino” all’interno di un antico volume. Un mistero che forse non verrà mai risolto, ma che avvolge di grande fascino questi meravigliosi oggetti di cui oggi possiamo ancora ascoltare la loro musica:

Clicca qui per ascoltare l’audio del canto di benedizione
Clicca qui per ascoltare l’audio del canto di ringraziamento

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Attenzione: ascoltare musica è doping

musica doping

Il potere terapeutico della musica è attestato da innumerevoli studi. La musica è in grado di modulare l’umore di una persona in diverse modalità: influisce sia nei più semplici contesti quotidiani donando momenti di svago, evasione, compagnia, ma in una prospettiva più ampia ha anche il potere di promuovere la salute e il benessere fisico e psicologico.

I benefici della musica sono tantissimi: aiuta contro i disturbi dell’umore, il disagio psichico, la depressione, deficit di lettura e di apprendimento, l’autismo, la demenza e le malattie neuro-degenerative. L’esercizio muscolare legato all’uso di uno strumento è un’ottima e piacevole terapia riabilitativa per i pazienti che hanno subito lesioni motorie. La musica stimola la consapevolezza interiore, accresce il nostro benessere e migliora il nostro umore; influisce sul battito cardiaco, la pressione sanguigna, la respirazione, il livello di alcuni ormoni, in particolare quello dello stress, e le endorfine.

Su questo e sul perché ascoltare musica ci piace e ci fa stare bene ne ho parlato qui (Perché ascoltare musica ci fa stare bene?) ed è a partire da queste considerazioni che in alcuni casi si è addirittura arrivati al punto di vietare l’ascolto di musica in contesti agonistici per “effetto doping”.

Praticare sport con il giusto ritmo in cuffia aiuta, anche la corsetta al parco non sarebbe la stessa senza musica. Non è solo un fattore di compagnia o di svago, è stato dimostrato che la musica agisce da stimolante: può aiutare a far sentire meno la fatica degli allenamenti e persino migliorare le prestazioni sportive.

LA RICERCA SCIENTIFICA

Come emerso da una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica “The Sport Journal” svolta da un team di ricercatori coordinato dal Dott. Costas Karageorghis, vice-direttore della Sport and Education of Brunel University di Londra, la musica può avere effetti “dopanti” durante l’attività fisica (trovate l’articolo cliccando qui) .

Il cervello risponde autonomamente a stimoli ambientali esterni, aumentando le capacità connettive neuronali e la produzione di endorfine. Ascoltare musiche con un determinato ritmo può aiutare a controllare e aumentare la velocità, la resistenza alla fatica e ridurre la percezione del dolore. Sono molti gli atleti che ammettono di ascoltare musica prima delle gare, perché può funzionare anche per raggiungere lo stato mentale ottimale.

Secondo questo studio sono cinque le abilità principali che possono essere influenzate dalla musica (qui l’articolo completo)

  • Regolazione dell’arousal
    la musica può essere usata dagli atleti per concentrarsi, attivarsi o rilassarsi. Il ritmo stimolerebbe in particolare le sedi del cervello che governano l’eccitazione come il sistema limbico e reticolare, i testi dei brani invece agirebbero sulla sfera emotiva;
  • Dissociazione
    è un meccanismo utilizzato in psicologia e che qui trova applicazione nella potenzialità della musica, durante un esercizio fisico, di distogliere la mente dalle sensazioni di affaticamento e dalla percezione di fatica, favorendo l’emergere di emozioni positive, piacevoli e divertenti;
  • Sincronizzazione
    gli studiosi parlano di “rhythm response”, ossia la capacità umana innata di sincronizzare i movimenti col ritmo musicale. Questo permetterebbe agli atleti di prolungare le prestazioni, regolare i movimenti, rendendo le performance più efficienti e resistenti, ed ha anche un enorme effetto motivazionale;
  • Acquisizione di capacità motorie
    musica e sport, soprattutto dall’età evolutiva in poi, potrebbero fornire occasione di esplorazione del proprio corpo e incremento della coordinazione dei movimenti;
  • Raggiungimento dello stato di flow
    la musica aiuterebbe l’atleta, prima di una gara, ad entrare in uno stato simile a quello di trance, ossia di maggiore attenzione, motivazione intrinseca, concentrazione, attivando una maggiore presa di coscienza del proprio stato interiore e delle proprie emozioni;

Curioso il caso del campione olimpico Haile Gebrselassie. In una intervista al Guardian dichiara: «”Scatman” era perfetta per correre i 10.000 metri. Ho battuto molti record con la canzone “Scatman”. Fantastica. Se guardi qualche video dei miei record mondiali, la puoi sentire in sottofondo. Era il ritmo perfetto per la corsa».

QUANDO LA MUSICA È VIETATA

Su un piano scientifico la musica può essere considerata un doping naturale e in alcuni casi è stata addirittura vietata. Ad esempio, nella maratona di New York del 2007 era stato vietato l’utilizzo delle cuffiette durante la gara: secondo la federazione americana di atletica, la musica altera le prestazioni e aumenta il rendimento. La Usa Track and Field, ha messo al bando l’uso di auricolari e riproduttori di musica portatile. Le nuove regole sono state giustificate per volontà di non dare “un vantaggio competitivo” a chi corre con la musica nelle orecchie.

«In Italia hanno abolito l’uso delle cuffie alcune federazioni, fra cui quelle di ciclismo, triathlon e ciclismo paralimpico» spiega l’esperto. «La Federazione Italiana Atletica Leggera (Fidal) lo consente in quelle gare in cui non sia in palio un titolo e nelle corse miste è permesso a tutti i concorrenti tranne a quei runner che lottano per vincere un premio. Questo avviene non solo per contrastare l’effetto della musica sulle performance, ma anche per non rischiare contatti proibiti con l’esterno (ad esempio con l’allenatore) e negli sport su strada è importante perché isolarsi può costituire una grave distrazione: magari non si sentono le ambulanze arrivare o le grida di avvertimento di altri corridori riguardo a un eventuale pericolo».

dall’articolo de Il Corriere della Sera “La musica come «doping»: ascoltare canzoni dà una marcia in più a chi fa sport” – link qui

LA MUSICA GIUSTA SECONDO LA SCIENZA

A questo punto la domanda scatta automaticamente: qual è la musica giusta per allenarsi? Quando si corre, ad esempio, la maggior parte delle persone sembra preferire brani intorno ai 160 bpm. Ma recenti ricerche individuano un buon effetto già a 145 bpm: un ritmo più veloce non è motivante. Può incidere anche la velocità del cantato, ecco spiegato il successo in palestra delle canzoni rap e trap.

Se volete sperimentare il dottor Karageorghis, in seguito ai suoi studi su musica e allenamento, ha stilato una lista di brani da abbinare ai vari esercizi:

Mental preparation
“Umbrella” – Rihanna Ft. Jay Zee (89 bpm)

Warm-up activity
“Gettin’ Jiggy With It” – Will Smith (108 bpm)

Stretching
“Lifted” – The Lighthouse Family (98 bpm)

Strength component
“Funky Cold Medina” – Tone Loc (118 bpm)

Endurance component
“Rockafeller Skank” – Fatboy Slim (153 bpm)

Warm-down activity
“Whatta Man” Salt-n-Pepa (88 bpm)


Su Spotify trovate anche la sua playlist “Ultimate Fitness Workout”

Per approfondimenti:
Professor Costas Karageorghis – Burnel University, London

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E se Spotify costasse 15 euro all’ora?

music business

Se Spotify costasse 15 euro l’ora… sarebbe una follia! È qualcosa di impensabile, anche ragionando per assurde ipotesi. Chi mai pagherebbe questa cifra per un’ora di musica? Oggi Spotify con un abbonamento di 9,90 euro al mese dà accesso illimitato a quasi tutta la musica esistente. Massima resa, minima spesa.

Chi pagherebbe 15 euro per 1 ora di musica?

Ad esempio, qualche giorno fa è stato pubblicato l’ultimo album degli Helloween (nota band Power Metal di Amburgo attiva dal 1983, un genere di nicchia e non così commerciale). Il disco lo si può ascoltare in tutte le piattaforme di streaming, volendo anche gratis ed in maniera totalmente legale, in cambio di un po’ di pubblicità ogni tanto. Per i più nostalgici o i collezionisti si può acquistare in formato fisico al costo di 16,99 euro per la versione base.

PRIMA DELLO STREAMING: LA PREISTORIA

Una volta c’erano i CD (e prima ancora le musicassette e prima ancora i vinili) e costavano. Costavano anche tanto. Ad esempio, una ristampa del primo CD degli Helloween “Walls of Jericho” (pubblicato nel 1987) nel 1998 veniva venduta a 38.900 lire.

Per ascoltare un CD, più o meno 45 minuti di musica, bisognava recarsi in un negozio di dischi e pagarlo. Era un altro mondo, un’altra era.

Poi tutto è cambiato e oggi la musica si ascolta gratis, ovunque, facilmente e legalmente. Senza dover mettere mano al portafoglio, rompere il porcellino dei risparmi e dover scegliere dolorosamente quale disco comprare e quale no. Ecco l’importanza che aveva allora leggere pagine e pagine di recensioni, seguire i programmi preferiti alla radio o nella giurassica MTV per cercare di compiere la scelta giusta.

Una volta la musica costava, circa 15 euro l’ora.

Per avere musica gratis c’erano poche soluzioni. La modalità legale: riuscire a farsi prestare il cd/musicassetta/vinile da un amico; la modalità illegale: duplicare il cd/musicassetta/vinile dell’amico; la modalità paziente e parzialmente illegale: ascoltare ore di radio in attesa che venisse trasmessa la canzone desiderata e registrarla. L’upgrade poi fu registrare i videoclip trasmessi da MTV (YouTube era ancora più in là della fantascienza allora). E poi arrivò Napster e il mondo cambiò per sempre.

È PIÙ IMPORTANTE ASCOLTARE CHE ACQUISTARE

Oggi siamo abituati ad avere tutta la musica del mondo gratis (o a 9,99 euro al mese) e non si torna indietro. È una conquista, una ricchezza senza pari poter ascoltare in qualsiasi momento qualsiasi cosa desideriamo. Ascoltiamo molta più musica, tantissima, senza doverci preoccupare delle nostre finanze. Anche solo per curiosità: per essere sicuri che proprio non è di nostro gradimento oppure, al contrario, scoprendo artisti su cui mai avremmo investito dei soldi per comprare un loro disco.

Una lunga evoluzione che ha portato l’atto di ascoltare musica ad essere più importante dell’atto di acquistare musica. Un futuro che sembra riportare la musica alla sua primitiva essenza: un tempo lontanissimo in cui non esistevano mezzi di riproduzione e la musica si poteva ascoltare soltanto nell’istante in cui veniva suonata; esisteva nel momento in cui veniva creata.

Gli effetti di questa rivoluzione sono stati a lungo studiati sotto il profilo sociologico e culturale. Hanno portato ad un allargamento esponenziale del pubblico, all’industrializzazione del consumo, all’omologazione del gusto e i generi musicali sono diventati espressioni di marketing e indicatori di target.

I numeri che contano oggi sono quelli delle visualizzazioni ottenute. Da diverso tempo non si sente più parlare di “tot” copie vendute di un disco, ma il vanto principale degli artisti è screenshottare il traguardo dei primi posti sulle varie piattaforme d’ascolto. Numeri da capogiro che però non rispecchiano i guadagni ottenuti dai musicisti, che sono in realtà molto bassi.

Nemmeno questa è una novità. Da quando l’ascolto è diventato un atto più importante dell’acquisto l’intero mercato si è impoverito. Non tanto i grandi nomi internazionali, che comunque hanno dovuto adeguarsi a questo cambiamento, ma musicisti ed etichette con poche centinaia di migliaia di fan che un tempo guadagnavano dalla vendita dei dischi. “Lo dicono i numeri: lo streaming funziona solo per l’1% degli artisti” titolava Rolling Stones qualche mese fa in un articolo in cui racconta come oggi i Big si spartiscono quasi tutta la torta, mentre il 99% di band e cantanti annaspa e non riesce ad emergere.

LA MUSICA È COME L’OSSIGENO

Ascoltare musica oggi è uno svago, uno svago che ormai si pretende sia gratuito. È scontato poter ascoltare in qualsiasi momento quello che si vuole e senza pagare.

La musica è come l’ossigeno: è ovunque, è gratis e non ne possiamo fare a meno. Come l’ossigeno anche la musica è diventata invisibile (ne ho parlato qui: La musica è diventata invisibile), ma riusciamo ancora a comprenderne davvero il suo valore?


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Disco d’oro: numeri e inganni (?) di un premio in declino

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La storia del Rock in una canzone

Era il 1979 quando Neil Young pubblicò “Rust Never Sleeps”, la ruggine non dorme mai. Un titolo che già sa di leggenda per un disco che si apre con il brano My, My, Hey, Hey (Out Of The Blue): in pochi versi Neil Young riassume la storia del Rock, la sua filosofia e il suo futuro.

“The King” is gone but he’s not forgotten
This is the story of a Johnny Rotten
It’s better to burn out than fade away
“The King” is gone but he’s not forgotten
.


ROCK AND ROLL IS HERE TO STAY

Siamo alla fine degli anni ’70 e il Rock ha alle spalle un glorioso passato, ha radici ben salde, ma il tempo passa inesorabilmente con il rischio di arrivare alla “corrosione” artistica. Non per il Rock, non per la vera essenza del Rock, per la sua energia primitiva che sta alla sua base ed è la sua salvezza. Il Rock è come la ruggine e “non dorme mai”.

My, My, Hey, Hey (Out Of The Blue) che apre la prima facciata del disco, viene riproposta in versione elettrica alla fine, con il titolo cambiato in My, My, Hey, Hey (Into The Black) e il testo leggermente modificato. Neil Young voleva sparare in faccia all’ascoltatore tutta l’energia debordante del Rock a volumi assordanti. Nel mondo del Rock se devi dire qualcosa devi dirlo forte, potente e devi dirlo presto.

“THE KING” IS GONE BUT HE’S NOT FORGOTTEN

A Neil Young l’ispirazione per questo brano arrivò sull’onda emotiva della morte di Elvis Presley avvenuta due anni prima, 16 agosto 1977. È il lui “il Re” che se ne è andato, ma che non potrà mai essere dimenticato, come canta nel verso “The King” is gone but he’s not forgotten. La storia del Rock nasce con lui: tutto cominciò da Elvis Presley che si agitava selvaggiamente scuotendo il bacino a ritmo indiavolato.

Erano gli anni Cinquanta ed Elvis svegliò l’America del Dopo Guerra. Era ribelle, irriverente, spudorato e il Rock divenne la colonna sonora di una generazione e di trasformazioni sociali che sono arrivate fino ad oggi.

La nascita del Rock’n’Roll fu la risposta diretta alla nascita di un nuovo soggetto sociale: i giovani. Oggi siamo abituati a considerare i giovani come un mondo con gusti e comportamenti propri, ma prima di allora non era così. Prima della metà degli anni Cinquanta ai giovani non era riconosciuta autonomia culturale e per la prima volta in assoluto nella storia nacque una musica rivolta esclusivamente a loro: ne rivendicava una propria identità, in conflitto con il resto della società.

Stanchi delle consuetudini e con un grande desiderio di libertà, i giovani cominciarono a stabilire proprie regole nell’abbigliamento, nei comportamenti, nelle relazioni sociali e nella musica. Iniziano a scegliere una musica in grado di esprimere i loro desideri. Il Rock’n’Roll nasce dal conservatorismo della Country Music e l’energia ribelle del Rhythm’n’Blues: incarnava l’ambivalenza che sentivano i giovani di allora, divisi tra un distaccamento dal modello parentale conformista e la sfiducia nei simboli del benessere.

I giovani diventano un soggetto sociale ben definito e soprattutto un nuovo soggetto economico da intercettare. L’interesse dei pubblicitari puntò presto verso questa nuova fascia di popolazione in grado, molto più che in passato, di spendere e consumare.

THIS IS THE STORY OF A JOHNNY ROTTEN

Anche se “la ruggine non dorme mai” di acqua sotto i ponti del Rock ne è passata tanta. Con Neil Young e My, My, Hey, Hey (Out Of The Blue) siamo nel 1979, siamo nel momento della storia in cui arriva il Punk a dare uno scossone allo star system del Rock.

“No future” cantavano i Sex Pistols. Nessun futuro, nessuna speranza. Mentre il 16 agosto 1977 Elvis, il Re, si spegneva nella sua dorata Graceland, in Inghilterra esplodeva il Punk. Johnny Rotten, il leader dei Sex Pistols, con tutta la sua carica nichilista e ribelle, faceva a pezzi il mondo di lustrini e paillette che il Rock non era riuscito a distruggere.

Il Punk è il Rock’n’Roll di una generazione senza sogni e senza speranze, che non vede la possibilità di un futuro migliore e prova a cantare la propria rabbia mettendo da parte le buone maniere, scardinando le regole dello show-business.

Con Woodstock e la fine degli anni Settanta era finita l’era d’oro del Rock. Chiusa la fucina dei grandi ideali e delle rivoluzioni, arrivò l’industria discografica con il chiaro obiettivo di capitalizzare il Rock. Il Rock degli anni Settanta con la sua forza comunicativa era riuscito ad abbattere molti muri e si era conquistato un posto di primo piano nel panorama culturale e dello spettacolo. Celebrava il suo trionfo cambiando pelle ed entrando a patti con la cultura di massa.

IT’S BETTER TO BURN OUT THAN TO FADE AWAY

Neil Young canta di uno spirito ribelle che nonostante tutto non si arrugginisce, canta il timore di un conservatorismo artistico da cui è possibile salvarsi mantenendo viva l’energia primitiva del Rock. E curiosamente My, My, Hey, Hey (Out Of The Blue) è entrata nella leggenda della storia del Rock anche perché è legata a filo doppio ad un gruppo ed un genere musicale che per molti ha ucciso il Rock: il Grunge dei Nirvana.

Elvis inizia la sua carriera nel 1954 e 40 anni dopo nell’aprile del 1994 Kurt Cobain, leader dei Nirvana, si suicidò. Nella lettera d’addio scritta poco prima di togliersi la vita e trovata accanto al suo corpo, Cobain cita esplicitamente un verso di questa canzone:

Tutti gli avvertimenti della scuola base del punk-rock che mi sono stati dati nel corso degli anni, dai miei esordi, come l’etica dell’indipendenza e della comunità si sono rivelati esatti. Non provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla e nel leggere e nello scrivere da troppi anni ormai. Questo mi fa sentire terribilmente colpevole. (…) A volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco (…) e ricordate, è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente. (“It’s better to burn out than to fade away”)

Ma il Rock è imprevedibile: nel corso della sua storia sono nati tantissimi generi e sottogeneri, dai più commerciali ai più estremi. Cambia pelle, si evolve e il suo spirito ribelle non morirà mai perché, come canta Neil Young: la ruggine non dorme mai.

Rock and roll can never die
There’s more to the picture
Than meets the eye

My my, hey hey
Rock and roll is here to stay
It’s better to burn out than to fade away
My my, hey hey

Out of the blue and into the black
You pay for this, but they give you that
And once you’re gone, you can’t come back
When you’re out of the blue and into the black.

The king is gone but he’s not forgotten
Is this the story of Johnny rotten?
It’s better to burn out than it is to rust
The king is gone but he’s not forgotten.

Hey hey, my my
Rock and roll can never die
There’s more to the picture
Than meets the eye.
Hey hey, my my.

Bibliografia:
Ernesto Assante e Gino Castaldo “Blues, Jazz, Rock, Pop. Il Novecento americano”, Einaudi, 2004.

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L’oblio delle compositrici – La donna nella storia della musica

Ludwig, Wolfgang, Johann Sebastian, Richard, Franz, Antonio… Basta solo il nome, la memoria richiama il cognome in automatico e le note delle loro più famose melodie risuonano facilmente nella nostra mente. Sono alcuni dei più grandi compositori della storia della Musica occidentale e sono tutti uomini.

Per molto, moltissimo, tempo comporre musica è stata un’attività legata al mondo maschile; certo, le donne studiavano musica, potevano diventare bravissime cantanti ed eccellenti virtuose, ma erano doti finalizzate ad arricchire le doti di moglie, madre e angelo del focolare.

L’aspetto più creativo del far musica, la composizione, era riservata agli uomini; ma recenti, e tardi, studi hanno individuato nel corso dei secoli una presenza di donne compositrici. Molti nomi illustri che a causa della condizione sociale e culturale delle donne nel corso dei secoli, ancora oggi sono considerate figure minori, quasi sconosciute e dimenticate. Alcuni studiosi parlano di un “oblio delle compositrici”, lasciate, soprattutto agli occhi del grande pubblico, nel più totale silenzio.


MEDIOEVO

Già in alcuni documenti di epoca medievale viene riscontrato un ruolo attivo della donna legata al servizio religioso, non solo come interprete, ma anche come autrice. Tra le tante spicca il nome della tedesca Hildegard von Bingen (Santa Ildegarda) (1098-1179), badessa benedettina dell’abbazia di Rupertsberg. Figura di alto prestigio spirituale, politico e letterario, raccolse le proprie composizioni in una raccolta dal titolo “Symphonia armonie celestium revelationum”, 77 brani a formare un ciclo liturgico completo; compose anche il dramma morale “Ordo virtutum”.

Dal XII secolo risultano attive donne compositrici anche nella sfera della musica profana. Nella cerchia dell’alta società ritroviamo nobildonne che condividono il codice maschile dell’amor cortese e scrivono secondo le convenzioni del genere, come Blanche de Castile, regina di Francia e troviera.

Non mancano anche compositrici di classi inferiori, in questo caso le ritroviamo nel ruolo di “menestrelleitineranti di cui è documentata l’attività di esecutrici e anche improvvisatrici presso le corti. Sarà poi lo sviluppo della polifonia che escluse del tutto le donne dalla composizione professionale poiché lo studio delle tecniche compositive era ad uso esclusivo del clero.

RINASCIMENTO

Nel Quattrocento il modello di educazione umanistica delle famiglie aristocratiche comprendeva anche l’istruzione musicale, ma era una pratica finalizzata ad arricchire le doti della futura sposa. La composizione per le donne era considerata una forma di otium aristocratico, non aveva sbocchi professionali.

Dal Cinquecento si cominciano a registrare le prime eccezioni: nelle corti si affermò la figura delle cantanti professioniste e questo diede la possibilità alle donne di intraprendere una carriera musicale e sfruttare professionalmente il proprio talento. Anche se per la maggior parte non erano compositrici, ma virtuose del canto o di uno o più strumenti.

Tra le donne compositrici dell’epoca un nome importante è quello di Maddalena Casulana, la cui fama da compositrice superò quella di cantante. Alcune sue musiche arrivarono anche alla corte di Guglielmo di Baviera che le scelse per accompagnare i festeggiamenti del suo matrimonio. Nata a Vicenza intorno al 1540 fu liutista, cantante e compositrice; arrivò alla Corte dei Medici a Firenze dove Isabella de’ Medici le fece da protettrice e le commissionò “Il primo libro de’ madrigali a quattro voci”. Il testo si apre con una dedica rivolta a Isabella de’ Medici (forse una della prime rivendicazioni del ruolo della donna in ambito professionale) in cui la Casualana dichiara:

“…dimostrare al mondo il
vanitoso errore degli uomini di
possedere essi loro doti
intellettuali, e di non credere
possibile che possano esserne
dotate anche le donne…”

Maddalena Casulana

SEICENTO

Nel Seicento le donne compositrici si dedicarono con successo a forme e generi diversi: dalla musica strumentale alla monodia accompagnata, da madrigali, canzonette e balli a raccolte di musica sacra e profana. Molto spesso provenivano da famiglie di musicisti e letterati, come Francesca Caccini (1587-1640), figlia d’arte del più celebre Giulio; fu cantante, compositrice, strumentista e si esibì nelle maggiori corte europee. Fu una delle musiciste che più contribuì alla fioritura della musica barocca e la prima compositrice della storia a scrivere un’opera: La liberazione di Ruggiero”.

Cammeo con ritratto di Francesca Caccini

Una fervente attività la si ritrova anche nei conventi femminili italiani che favorirono le ambizioni di alcune monache di estrazione aristocratica. Qui ritroviamo, ad esempio, Raffaella Aleotti (1570-1646) priora del convento di San Vito di Ferrara, autrice della prima raccolta di musica sacra pubblicata da una donna dal titolo “Sacrae cantiones”.

Al di fuori dell’Italia troviamo Elizabeth-Calude Jacquet de la Guerre (1666-1729) compositrice e clavicembalista francese, protetta da Luigi XIV si esibì spesso alla corte di Versailles e dedicò molte delle sue composizioni al Re Sole. In Germania spicca il nome di Amalia Catharina, contessa di Erbach, poetessa e compositrice, autrice di numerose liriche spirituali con basso continuo.


SETTECENTO

Nel Settecento furono proprio Francia e Germania a registrare un maggior incremento di donne compositrici; e come non citare Anna Maria Mozart, sorella del molto più famoso Wolfgang Amadeus. Conosciuta con il soprannome di Nannerl come suo fratello minore aveva un grande talento musicale, sia come eccellente pianista, sia come compositrice, ma nessuno dei suoi lavori è giunto a noi.

Italiana invece è la prima donna della storia ad ottenere nel 1774 il titolo di “maestro di cappella”. È Maria Rosa Coccia, ma tale incarico non le fu mai conferito. La sua è una storia che scatenò violente polemiche, che con il tempo sollevarono su di lei antipatie, egoismi, invidie e la condanneranno lentamente, ma inesorabilmente, all’oblio. Nessuno stampò la sua musica e le composizioni che inviò ai regnanti dell’epoca e personaggi illustri le valsero soltanto grandi elogi e attestazioni di stima e ammirazione. Non avrebbe mai potuto dirigere una sua composizione davanti a un pubblico, come era normale tra i suoi colleghi, e alla Coccia non restò che adattarsi a incarichi di insegnamento privato.

Maria Rosa Coccia

OTTOCENTO

Nell’Ottocento l’istituzione di conservatori aperti alle donne consentì ufficialmente alle compositrici la possibilità di una carriera pubblica. Il primo conservatorio di musica negli Stati Uniti, la Music Vale Academy, fu fondato nel 1835 allo scopo di insegnare musica alle donne.

Ora cominciano ad essere più numerose le donne che compongono musica e molte sono figlie, mogli o sorelle di più celebri musicisti. La più famosa è sicuramente Clara Wieck, moglie di Schumann, una delle poche donne ricordate nei libri di storia della musica. Bambina prodigio, debuttò a soli nove anni diventando in poco tempo una delle concertiste più acclamate e stimate in Europa. Molto giovane si innamorò di Robert Schumann che sposò raggiunta la maggiore età nel 1840. Fu sua fedele compagna per tutta la vita e musa ispiratrice. Musicalmente la sua tecnica pianista era straordinaria ed impeccabile, insegnò al Conservatorio di Francoforte dal 1878 al 1892. Fu anche una prolifica compositrice sin dalla tenera età: ha scritto opere di successo per pianoforte solo, per orchestra, musica da camera e Lieder, quest’ultimi ancora poco conosciuti e causa della loro frequente erronea attribuzione al marito.

Una volta credevo di avere talento, ma sto cambiando idea; una donna non dovrebbe desiderare di comporre, mai una è stata capace di farlo, dovrei essere io quell’una? Sarebbe arrogante crederlo. Le donne tradiscono sé stesse nelle loro composizioni, questo vale per me come per altre. Che sia Robert a creare, sempre! Questo solo deve rendermi felice

Clara Wieck
Clara Wieck Schumann

Un talento osteggiato fu quello di Fanny Mendelssohn (1805-1847), sorella maggiore del compositore tedesco Felix Mendelssohn-Barthodly. Fu autrice di molti Lieder, musica strumentale, cantate, oratori; musiche rimaste manoscritte per la resistenza impostale dal padre e dal fratello a riconoscerle il diritto ad una carriera pubblica di compositrice.


NOVECENTO

L’americana Clara Baur fu la prima donna a fondare un conservatorio, l’Università di Cincinnati College-Conservatory of Music, nel 1867. Il Novecento segna per le donne un maggior riconoscimento pubblico sia nel concertismo sia nella composizione.

In chiusura a questa breve e non esaustiva rassegna, un ricordo delle sorelle Boulanger. Nadia Boulanger (Parigi, 1887-1979) è stata un’importante compositrice, insegnate e direttore d’orchestra ed esercitò una grande influenza sui giovani compositori, soprattutto americani. Mentre la sorella Lilli Boulanger morì giovanissima nel 1918 lasciando pregevoli composizioni nel campo della musica corale, e fu la prima donna ad ottenere il prestigioso Prix de Rome.

Lilli Boulanger

Storie di donne che scardinando le costrizioni sociali e culturali hanno saputo dare un importante contributo alla musica e che, ancora oggi, non trovano il giusto spazio nella memoria collettiva.