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La musica potrebbe essere un linguaggio universale – L’esperimento indiano

Sull’universalità della musica se ne è parlato tanto e ne ho già scritto anche qui in due precedenti articoli (La Musica (non) è un linguaggio universale – parte 1 e La Musica (non) è un linguaggio universale – parte 2); molti studiosi di musica hanno analizzato a fondo il discorso cercando di trovare la soluzione ultima alla questione.

La pietra filosofale necessita tuttavia di numerose ricerche e di cambi di prospettiva nella nostra missione alchemica. È chiaro che la musica, per come la intendiamo noi occidentali, non può essere un linguaggio universale. Non possiamo pretendere che i pigmei “capiscano” Stravinskij o che i canti tribali degli aborigeni australiani possano essere pienamente compresi ascoltandoli nelle comode poltroncine rosse dei nostri teatri.

I contesti, la concezione, la cultura sono diversi e possiamo non possedere gli strumenti intellettuali per decodificare il messaggio. Ma è sempre così? Sì, a meno che non si cominci da zero e si cerchi di re-codificare il linguaggio e tramutarlo in una sorta di “esperanto” musicale, un linguaggio che sia talmente radicato nella nostra essenza umana da trascendere la cultura di appartenenza.

Il caso della musica classica indiana

Molto affascinante è il caso della musica classica indiana, o perlomeno della sua origine. Nel corso della sua storia l’India si è distinta, più che per un progresso a livello tecnologico, per un interesse e un’affinità con il mondo spirituale. Dalla medicina alla cucina, dall’attività motoria all’attività sessuale: tutto nell’antica India è stato visto come un possibile collegamento, un ponte, per una crescita interiore. Anche la musica.

Una prima caratteristica fondamentale della musica classica indiana, che la differenzia molto dalla nostra, è che non ci sono progressioni di accordi. Provate ad ascoltare l’esecuzione di un raga di Ravi Shankar e sentirete che tutto il messaggio musicale si muove all’interno di un unico bordone, un bicordo formato da tonica e quinta giusta e relative ottave (eseguito dalla tampura, strumento affascinante e magico che ci catapulta già dal primo arpeggio in un tempio nel Bengala).


Il contesto armonico è fisso, stabile, non si scosta da questo centro di gravità permanente per dirla con le parole di un altro grande saggio armeno (e già, non sono di Battiato, se siete interessati ne ho parlato qui). Questa è una grandissima differenza rispetto alla nostra musica di stampo occidentale. L’armonia porta ad atmosfere meravigliose, a cambiamenti di umore che sono stati codificati e intellettualizzati nel corso dei secoli dalla nostra cultura, ma che possono essere molto soggettivi. Per arrivare a un linguaggio universale dobbiamo spogliare il nostro codice da qualsiasi orpello e puntare all’essenza.

La seconda grande intuizione indiana è assegnare un significato (emotivo, magico o spirituale) a ciascun intervallo musicale. Proviamo a confrontare la tonica con la propria seconda minore. La sensazione è sgradevole, carica di tensione, tutta un’altra cosa rispetto al rapporto tonica e quinta giusta, un intervallo perfetto nella sua consonanza. La terza minore piange, esprime tristezza al contrario della gioia della terza maggiore.

Questo possiamo dirlo con una certa oggettività: mentre chiunque di noi può intuire e confermare queste sensazioni in maniera automatica basandosi sull’ascolto; gli studiosi dell’India sono andati oltre, codificando questo linguaggio e utilizzandolo come base di partenza per costruire qualcosa di nuovo.

Leonard Bernstein spiega gli intervalli


Per ogni intervallo musicale gli antichi studiosi della musica indiana hanno rilevato una funzione, un carattere determinato quasi con rigore scientifico, come tensione o risoluzione per dirla in termini occidentali. Su questo è stato costruito un sistema fondato più sulle scale e non tanto sull’armonia e sulla melodia come noi occidentali siamo portati a ragionare. La nota della scala indiana è stata studiata per uno scopo, per ottenere un effetto e così la concatenazione dei diversi intervalli tra loro. Ecco la grande quantità delle scale indiane che sono state raccolte per la loro funzione piuttosto che per la loro effettiva piacevolezza dell’ascolto.

Un sistema totalmente diverso dal nostro, evoluto in una sua precisa direzione e ci porta a riflettere sulla grandezza e sulla magia della musica nella sua diversità e universalità.


Leggi anche:
La Musica (non) è un linguaggio universale – parte 1
La Musica (non) è un linguaggio universale – parte 2

La musica potrebbe essere un linguaggio universale – I suoni binaurali
Vedere l’armonia: il suono si fa forma

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La prima chitarra della storia

La chitarra, acustica o elettrica, è uno degli strumenti più suonati e conosciuti. La sua popolarità è così grande che viene considerato a tutti gli effetti lo strumento più rappresentativo del XX secolo. Ma quando ha fatto il suo ingresso nella storia della musica? A quando risale la più antica chitarra che conosciamo? È una storia che inizia da molto lontano, circa 4.000 anni fa in Egitto.

La prima chitarra della storia, o meglio il primo antenato della chitarra, viene identificato con uno strumento ritrovato in una tomba egizia databile intorno al 1.500 a.C. (3.500 anni fa!)

Secondo uno studio di Nora Scott (egittologa e curatrice della sezione di arte egizia del Metropolitan Museum of Art di New York) questo strumento apparteneva ad Har-Mose che molto probabilmente faceva parte della corte di Sen-Mut (o Senenmut), architetto, capo di Stato e consigliere della regina Hatshepsut, uno dei personaggi più importanti nell’Egitto dell’epoca. Si dice anche che Sen-Mut fosse l’amante della regina ed è suo il progetto del maestoso tempio a terrazze di Deir el-Bahri, uno dei monumenti più belli dell’antico Egitto.

Il tempio di Deir el-Bahri
Il cantante Har-Mose

Sen-Mut volle assicurarsi di avere il suo musicista preferito accanto a sé nell’aldilà, come anche il suo cavallo e il suo animale da compagnia, una scimmia. Così si assicurò che Har-Mose venisse un giorno seppellito in una tomba accanto alla sua, e a sua volta Har-Mose si assicurò che accanto a sé venisse depositato anche il suo prezioso strumento.

Lo strumento è un lontano antenato della moderna chitarra, ha tre corde e si suonava con un plettro che è stato ritrovato legato al manico da un cordino. La cassa di risonanza era in legno di cedro lucidato e aveva una tavola armonica in pelle grezza. Oggi è conservato al Museo Archeologico del Cairo.

Lo strumento di Har-Mose

La tomba di Har-Mose è dello stile tipico di un uomo di umili origini, ma con qualcosa di molto importante in più, un’incisione che riporta il suo nome: lì è sepolto “il cantante Har-Mose”. Ecco spiegato come mai accanto a sé avesse uno strumento musicale. Non era un cantante e un musicista qualsiasi, ma alcuni studiosi (come Bernard Shaw, dipartimento di “Pathology of the Egyptian University” del Cairo) non sono certi che fosse legato alla figura dell’importante architetto Sen-Mut; se fosse un suo servitore o se ci fosse qualche connessione, ma di certo morì in quel periodo e fu sepolto accanto alla sua tomba.


La tomba dell’architetto Sen-Mut

La storia si fa ancora più affascinante perché la tomba dell’architetto Sen-Mut (che si è costruito accanto al maestoso tempio di Deir el-Bahri) fu scoperta quasi casualmente nel 1927 e ha attirato l’attenzione degli studiosi di mezzo mondo. È posizionata e costruita in modo da non essere ben visibile, quasi la si volesse in qualche modo nascondere. L’aspetto più interessante ed unico è il soffitto interno, ricoperto da un’affascinante raffigurazione dell’universo allora conosciuto, compreso un bellissimo e preciso calendario lunare.

In particolare, in una zona del soffitto sono raffigurate le tre stelle della cintura di Orione con una quarta stella posizionata di fronte alle stesse. L’esatta riproduzione in scala delle piramidi e della sfinge nella piana di Giza! Qui il mistero si infittisce ancor di più e si lega addirittura a ipotetici messaggi in codice legati a civiltà aliene, ma questa è un’altra storia…

https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/a4/Senenmut.jpg
Il soffitto della tomba di Sen-Mut
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“Pierino e il lupo” non è solo una semplice fiaba per bambini

In uno strano Natale ai tempi della pandemia il Teatro La Fenice di Venezia realizza un’inedita produzione della fiaba musicale “Pierino e il lupo” di Sergej Prokof’ev sotto la direzione musicale di Alvise Casellati, voce recitante dell’attrice Sonia Bergamasco, illustrazioni di Chiara Tronchin e animazioni di Heads Collective. Il video è disponibile sul canale YouTube del Teatro per tutto il 2021 (clicca qui).

“Pierino e il lupo” è tra le pagine di musica più utilizzate dagli insegnanti per far conoscere ai bambini gli strumenti musicali. La favola sinfonica più amata, interpretata negli anni dai migliori attori e tradotta in tutte le lingue. Per questo forse un po’ banalizzata e mai più ascoltata in età adulta, anche se in realtà nasconde un significato allegorico profondo e non molto conosciuto.

La storia

“Pierino e il lupo” è una favola in musica per voce recitante e orchestra (op. 67) con testo e musica di Sergej Prokof’ev. Andò in scena per la prima volta il 2 maggio 1936 al Teatro Nezlobin, il Teatro per l’Infanzia di Mosca, la cui direttrice, regista e pedagoga Natalja Satz aveva proposto e commissionato il lavoro a Prokof’ev.

Si racconta la storia di un bambino, Pierino, che con l’aiuto di un uccellino e altri amici animali riesce a catturare un temibile lupo cattivo. Una voce narrante racconta la fiaba, mentre la musica di Prokof’ev commenta le scene. Alla musica è affidato il compito di descrivere il carattere e le azioni dei personaggi, ciascuno collegato ad un tema musicale e ad uno strumento particolare: a Pierino gli archi, all’uccellino il flauto, al gatto il clarinetto, all’anatra l’oboe, al nonno il fagotto, ai cacciatori le percussioni e al lupo i tre corni.

Illustrazione di David De Pasquale


La storia è semplice: Pierino disobbedisce al nonno e scappa per andare giocare con i suoi amici animali; il nonno lo rimprovera e lo riporta a casa giusto in tempo prima dell’arrivo del lupo che mangia l’anatra in un sol boccone. Pierino si precipita a salvare i suoi amici: chiede all’uccellino di svolazzare davanti al naso del lupo distraendolo, mentre lui sale sull’albero e lo cattura con una corda. All’arrivo dei cacciatori Pierino chiede di non uccidere il lupo, ma di portarlo allo zoo.


Le diverse chiavi di lettura

“Pierino e il lupo” è una favola in musica. Come tutte le favole insegna un’importante morale ai bambini e allo stesso tempo in modo originale e divertente insegna anche a conoscere, e riconoscere, gli strumenti dell’orchestra; pensata per i più piccoli, ma utile anche a chi si avvicina per la prima volta alla musica classica. Il segreto di quest’opera è senza dubbio educare al potere allusivo della musica, capace di creare perfette corrispondenze tra suoni e immagini.

Si può fare un passo in più e addentrarsi nei significati allegorici più profondi del racconto: alcuni hanno letto in Pierino la figura del giovane proletario sovietico, l’anatra come il borghese codardo e il lupo come emblema del capitalismo.

Per far questo passo bisogna conoscere la vita di Prokof’ev, tornato in Unione Sovietica pochi anni prima nel 1923 deciso a partecipare alla trasformazione sociale e culturale del paese. Nell’aprile del 1934 alla prima esecuzione del “Canto sinfonico” venne duramente stroncato e minacciato dall’autorità: «Il Canto Sinfonico non possiede la benché minima qualità musicale. […] Possiamo ritenerlo una triste testimonianza del declino della cultura individualista… Procedere su questa strada sarà rischioso per il musicista.».

Illustrazione di Behance


Prokof’ev andò alla ricerca di una nuova semplicità di forme, moderne e razionali e dichiarò la formulazione teorica di questo nuovo modo di pensare in un articolo pubblicato il 16 novembre 1934 sul quotidiano Izvestia: «Si potrebbe qualificare la musica di cui abbiamo bisogno come ‘facile e sapiente’, o come ‘sapiente ma facile’. Non è così semplice trovare il linguaggio che le conviene. Innanzitutto, deve essere melodica, di una melodia semplice e comprensibile che non deve essere d’altra parte rimasticata né avere un profilo banale».

Si potrebbe qualificare la musica di cui abbiamo bisogno come ‘facile e sapiente’, o come ‘sapiente ma facile’

Alla luce di tutte queste vicende politiche e personali, alcuni critici musicali hanno quindi compiuto un passo ulteriore nel commentare la favola di “Pierino e il lupo” dandone una lettura più politica e meno innocente.

L’uccellino secondo questa interpretazione è l’artista che riesce a sopravvivere, a farsi beffe del potere e far impazzire di rabbia il lupo, Stalin, che non viene ucciso, ma portato allo zoo. Un Prokof’ev animalista o uno stratagemma per mettere in gabbia il grande dittatore agli occhi del mondo?

Sergej Sergeevič Prokof’ev

Sono interpretazioni e non sappiamo se Stalin colse gli indizi. Però si vendicò limitando la libertà del compositore, facendo arrestare la prima moglie Lina Ivanovna e proibendo l’esecuzione delle sue opere. Poi il destino ci mise lo zampino: Prokof’ev e Stalin morirono lo stesso giorno, il 5 marzo 1953. «Tutto il paese piangeva Stalin e nessuno sapeva che era morto Prokof’ev, che viveva a quattro isolati di distanza dalla sala dove era esposto il corpo del dittatore. A causa della folla, per alcuni giorni non fu possibile far uscire il corpo di Prokof’ev da casa. Al suo funerale non vi era neppure un fiore fresco: tutti i fiori di Mosca erano stati portati a Stalin», racconterà Mstislav Rostropovic.

Mai sottovalutare la musica.

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Le trombe maledette di Tutankhamon

Molti sono i tesori ormai celati dagli eoni del tempo, tesori sepolti in una dimenticata grotta oscura, sommersi nelle tenebre remote degli abissi marini e, per i più romantici, nascosti sotto un simbolo a X in una sconosciuta isola deserta.

Uno degli scenari più fantastici, misteriosi ed evocativi della nostra storia è certamente l’antico Egitto. Un’epoca magica che a distanza di millenni affascina scrittori, registi e scatena le teorie più fantasiose. C’è ancora chi si domanda chi può mai aver costruito le piramidi: folle di schiavi, saggi ingegneri dalle conoscenze sorprendenti o visitatori da galassie lontane?

Non è questo il luogo per rispondere a queste domande, ma un tesoro della storia della musica antica lo dobbiamo proprio ad uno dei più celebri, seppur sfortunati, faraoni: il leggendario Tutankhamon.

Correva l’anno 1922 quando l’archeologo britannico Howard Carter scoprì, nella Valle dei Re, la tomba di Tutankhamon. Fu una delle grandi scoperte dell’egittologia, permeata da un’aura di mistero, probabilmente anche per via della presunta maledizione legata a filo doppio alla profanazione del tesoro sepolto assieme al giovane e sfortunato faraone. Oltre a corredi religiosi, statue e gli immancabili vasi canopi, furono rinvenuti degli strumenti musicali: due trombe risalenti a 3.340 anni prima. Le più antiche trombe ancora funzionanti ad oggi mai scoperte. 

La tromba in bronzo

La prima è una tromba in bronzo (o forse in rame) e fu trovata nell’anticamera della tomba, assieme a oggetti di stampo militare. Alcune raffigurazioni nei dipinti dell’antico Egitto associano spesso, infatti, simili trombe a contesti militari.

La seconda tromba, d’argento e oro, fu rinvenuta nella camera funeraria. Entrambe presentano intarsi e decorazioni raffiguranti divinità. Al loro interno è stata trovata un un’anima di legno decorata, probabilmente per proteggere il sottile metallo dalla deformazione o per mantenere pulito il tubo. La tromba d’argento inoltre ha delle incisioni raffiguranti un fiore di loto e il nome del re Tutankhamon. Il bocchino è in oro, lo stesso materiale usato per una fascia applicata al bordo della campana.

La tromba in argento

Le trombe sono state sepolte insieme al faraone Tutankhamon e sono rimaste nascoste nel più totale silenzio per oltre 3000 anni. Ma il 16 aprile 1939 oltre 150 milioni di persone hanno potuto ascoltarne il suono durante una trasmissione radiofonica della BBC. Le trombe sono state suonate per la prima volta nell’era moderna da James Tappern, musicista della fanfara della British Army, durante una breve performance al Museo Egizio del Cairo dove gli strumenti sono conservati ancora oggi.

Gli strumenti erano talmente antichi e fragili che durante le prove la tromba d’argento si danneggiò, facendo ricoverare in ospedale per l’angoscia Alfred Lucas, un membro del gruppo di archeologi che scoprì la tomba di Tutankhamon. I racconti non si fermano qui e si dice che poco dopo aver sentito per la prima volta dopo tanti secoli il suono delle trombe, ci sia stato un grosso blackout in tutto il museo de Il Cairo. Cinque mesi dopo la Gran Bretagna entrò nella Seconda Guerra Mondiale e iniziò la guerra in Europa.

Da qui è nata la leggenda delle trombe “maledette”. A quanto pare hanno una sorta di potere magico e ogni volta che qualcuno fa suonare questi strumenti si scatena una guerra. Si dice che le trombe siano state suonate di nuovo prima della Guerra Arabo-Israeliana dei Sei Giorni nel 1967 e prima della Guerra del Golfo nel 1990.

Particolare della tromba in argento

È una delle tante leggende che avvolgono di mistero l’antico Egitto, civiltà che teneva la musica in grande considerazione e praticata a tutti i livelli sociali. Per gli egizi la musica era chiamata “hy” che vuol dire “gioia”, aveva origine divina e custode di quest’arte era la casta sacerdotale. Sono pervenute a noi notizie di canti popolari e leggendari, come il “Maneros” di cui ha parlato lo storico Erodoto.

Oggi dopo più di 3.000 anni possiamo ancora ascoltare il suono di questi preziosissimi strumenti. Un suono senza tempo. Un suono che è stato descritto come rauco e potete, il suono delle più antiche trombe ancora funzionanti del mondo.

Lo potete ascoltare qui:

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Perché Santa Cecilia è la patrona della musica?

simon vouet santa cecilia

Anche la musica e musicisti hanno un santo protettore a cui rivolgersi: è Santa Cecilia e si festeggia il 22 novembre. Come mai proprio lei? Non era una musicista e forse il suo nome è legato alla musica per errore.

Una storia che si mescola alla leggenda ed inizia a Roma tra il II e il III secolo, al tempo delle persecuzioni cristiane ordinate dal prefetto Almachio. Cecilia era una ricca e nobile romana che si convertì segretamente al cristianesimo e fece voto di castità. Fu però data in sposa ad un giovane di nome Valeriano. Durante il banchetto di matrimonio, mentre tutti festeggiavano con canti e musica, in cuor suo Cecilia cantava lodi al suo mistico e vero sposo: Gesù.

Cecilia confessò il suo voto a Valeriano che si convertì al Cristianesimo e la notte del matrimonio ricevette il battesimo da papa Urbano I. Vissero insieme come fratelli, ma furono scoperti, torturati e condannati a morte. Cecilia fu prima soffocata con del vapore (o dell’acqua bollente, a seconda delle fonti), ma non morì. Fu decapitata con tre colpi d’ascia e spirò dopo quattro giorni di agonia; venne poi deposta nella tomba vestita di broccato d’oro.

Orazio Gentileschi “Santa Cecilia suona la spinetta” (1618 -1622)

Fu Papa Urbano I, sua guida spirituale, a renderle degna sepoltura e, come racconta la Legenda Aurea, «seppellì il corpo di Cecilia tra quelli dei vescovi e consacrò la sua casa trasformandola in una chiesa, così come aveva chiesto». Il corpo di Santa Cecilia rimase nel complesso cristiano delle catacombe di San Callisto fino all’821 quando papa San Pasquale I lo fece trasportare in Trastevere nella basilica a lei dedicata.

E la musica cosa c’entra?

Le motivazioni che hanno poi portato Santa Cecilia ad essere proclamata patrona della musica sono incerte e un primo documento che unisce Cecilia alla musica risale al tardo Medioevo. Santa Cecilia sembra essere diventata patrona dei musicisti per un’interpretazione di un canto latino, l’antifona di introito della messa nel giorno della sua festa, che recita: Cantantibus organis, Cecilia virgo in corde suo soli Domino decantabat dicens: fiat Domine cor meum et corpus meum inmaculatum ut non confundar (Mentre suonavano gli strumenti musicali, la vergine Cecilia cantava nel suo cuore soltanto per il Signore, dicendo: “Signore, il mio cuore e il mio corpo siano immacolati affinché io non sia confusa”).

Col tempo questi versi hanno portato a pensare che Santa Cecilia cantasse le sue parole al Signore, mentre molto probabilmente queste erano solo recitate a mente. Un’altra interpretazione collega il testo non al banchetto di nozze, ma al momento del martirio e traduce organis” non come “strumenti musicali”, ma “strumenti di tortura”. L’antifona descriverebbe dunque Santa Cecilia che, tra gli strumenti di tortura, cantava a Dio nel suo cuore.

Simon Vouet “Santa Cecilia” (1626)

A partire dal XV secolo si cominciò a raffigurare la Santa con un piccolo organo e in seguito fu canonizzata e sempre raffigurata con uno strumento musicale tra le braccia. Nei secoli sotto il nome di Santa Cecilia sorsero così scuole, associazioni e periodici che consolidarono il suo ruolo di patrona della musica.

Cecilia ha ispirato anche moltissimi capolavori artistici tra cui l'”Estasi di santa Cecilia” di Raffaello,  la “Santa Cecilia” di Rubens; dai “Racconti di Canterbury” di Geoffrey Chaucer alla “Missa Sanctae” Ceciliae di Joseph Haydn e moltissime altre musiche di Alessandro Scarlatti, Charles Gounod,  Henry Purcell, Arvo Pärt, arrivando persino al Rock dei Foo Fighters con il loro EP “Saint Cecilia” del 2015.

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Il suono dello spazio, un concerto di elettroni

Nello spazio cosmico non ci sono suoni, vige il silenzio. La musica trasmessa da una fonte sonora o un ipotetico violino suonato da un astro-musicista sarebbero silenti, al nostro orecchio non arriverebbe nessuna nota. Non si udirebbero nemmeno gli spari nelle battaglie tra navicelle spaziali dei film di fantascienza o il fragore di una stella che esplode.

O almeno questo è quello a cui siamo sempre stati portati a pensare.

Il suono per la Fisica è un fenomeno acustico prodotto dal movimento (l’onda sonora) di particelle (atomi e molecole) trasmesso nell’ambiente circostante grazie ad un mezzo fisico di propagazione (come l’aria). Un classico esempio è quello del sasso gettato nello stagno che provoca una serie di onde concentriche che si propagano nell’acqua.

In realtà recenti studi di fisica quantistica hanno scoperto che, anche se nello spazio non c’è aria che possa far propagare il suono, ciò non significa che non ci siano suoni nello spazio. Oltre all’onda acustica esiste anche un’onda elettromagnetica creata dalla contemporanea propagazione di un campo elettrico e un campo magnetico, capace di generare una vibrazione e quindi un suono.

Lo spazio non è vuoto, ma è pieno di particelle cariche elettricamente che a contatto con un gas fluttuante, il plasma, sprigionano delle onde a loro volta influenzate da campi elettrici e magnetici. Queste particolari onde non sono altro che interazioni tra particelle elettromagnetiche provenienti dal vento solare e dalla magnetosfera dei pianeti che possono essere convertite in suoni.

È quello che è riuscita a fare la NASA ottenendo così il suono dello spazio, una sorta di “concerto” di elettroni. Una sinfonia di fischi che possono ricordare il verso di uccelli tropicali, sibili simili a quelli delle pistole della saga di Guerre Stellari e fruscii inquietanti.

E per le galassie più lontane?

Esiste un metodo artificioso chiamato sonificazione capace di trasformare le immagini del cosmo in suoni, fino a realizzare vere e proprie composizioni. La luce delle stelle e di altre sorgenti luminose viene convertita in note che aumentano di volume all’aumentare dell’intensità della luce emessa. Le nubi di gas e polveri invece creano delle variazioni armoniche in evoluzione.

Ecco un “concerto galattico” nel cuore della Via Lattea, a circa 26.000 anni luce dalla Terra.


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Il padovano che inventò il pianoforte

Il pianoforte è uno strumento di assoluto fascino, protagonista di infinite composizioni musicali e tra gli strumenti più conosciuti e praticati. Viene definito tecnicamente come uno “strumento musicale a corde percosse mediante martelletti azionati da una tastiera”, una descrizione che nasconde l’evoluzione di una storia da scoprire, merito della geniale intuizione del padovano Bartolomeo Cristofori.

L’alba del pianoforte ha origine nei primi strumenti a corda come il salterio, in uso presso Egiziani ed Ebrei, più volte citato nella Bibbia, che si suonava pizzicando le corde tese sopra ad una cassa di risonanza. Uno strumento analogo esisteva anche in Cina migliaia di anni prima dell’era Cristiana; mentre Pitagora (VI secolo a.C.) nei suoi studi sulle relazioni matematiche tra i toni musicali utilizzò il monocordo: la corda era tesa su una cassa di risonanza e si poteva dividere in varie lunghezze mettendola in vibrazione con un plettro. Passando poi alla storia degli organi (uno dei primi è stato l’Hydraulis, III secolo a. C.) che svilupparono un’altra componente fondamentale del pianoforte: la tastiera.

Fino ad arrivare al precursore del moderno pianoforte: il clavicembalo, inventato dal viennese Hermann Poll (1370-1401). Uno strumento a corde pizzicate tese sopra una tavola armonica e dotato di tastiera. Pigiando un tasto veniva azionato un plettro che pizzicava la corda facendola vibrare e quindi produrre un suono. Il clavicembalo per tutto il periodo Barocco divenne uno strumento molto amato nelle case nobiliari ed è usato ancora oggi per eseguire musica antica; il suo suono ha anticipato la ricchezza dinamica e l’eleganza del pianoforte moderno.

Qui fa il suo ingresso nella storia Bartolomeo Cristofori, nato a Padova il 4 maggio del 1655 e conosciuto fin da giovane come bravo costruttore di cembali e strumenti a corda molto apprezzati. Nel 1688 passò dalle sue parti il principe Ferdinando de’ Medici, grande mecenate, umanista e ottimo clavicembalista, che lo volle a Firenze come cembalaro di corte. È tuttora documentata la sua attività di progettista e costruttore di strumenti musicali e al museo Cherubini di Firenze si possono ammirare una spinetta, un cembalo in cipresso, un organo e anche un pregevole contrabbasso, testimonianza delle sue abilità come liutaio.

Ritratto di Bartolomeo Cristofori del 1726

Bartolomeo Cristofori rimase a Firenze fino alla sua morte e alla corte di Ferdinando de’ Medici ebbe una geniale intuizione: creare un nuovo strumento con possibilità dinamiche controllabili dall’esecutore. Pensò quindi di sostituire il meccanismo dei salterelli del clavicembalo con quello dei martelletti, cioè passare da uno strumento con corde pizzicate a uno strumento con corde percosse. Questo ha dato la possibilità di poter dosare la sonorità e suonare sia “il piano che il forte” a seconda della forza con cui si pigiano i tasti: la percussione delle corde per mezzo di un martelletto azionato con maggiore o minore forza permette di ottenere suoni più o meno intensi.

Il costruttore padovano dette nome allo strumento da lui inventato “Gravicembalo col piano e col forte” da cui deriva il moderno nome “Pianoforte” preceduto dal più antico “Fortepiano”.

Questo nuovo strumento diede la possibilità ai musicisti di ottenere sonorità più o meno forti a seconda della forza con cui le dita premevano i tasti, a differenza di strumenti come organi e clavicembali il cui meccanismo a corde pizzicate non permetteva di controllare la dinamica.

particolare del meccanismo a martelletti del Fortepiano costruito da Bartolomeo Cristofori nel 1720

L’invenzione di Bartolomeo Cristofori viene descritta qualche anno dopo nel 1711 in un articolo pubblicato dal marchese veronese Scipione Maffei nella rivista scientifica “Giornale dei letterati d’Italia” che ne descrive nel dettaglio anche l’innovativa meccanica.

Dei numerosi strumenti di questo tipo da lui costruiti ce ne sono pervenuti solo tre e sono tutti firmati con la scritta: “Bartholomaeus de’ Christophoris Patavinus inventor faciebat Florentiae” cui segue la data a numeri romani. Il più antico è del 1720 (nel 2020 ha compiuto 300 anni e si può ancora suonare) già appartenuto alla fiorentina signora Emesta Mocenni Martelli e ora conservato al Metropolitan Museum di New York (per donazione di Mrs. J. Crosby Brown). Il secondo datato 1722 è al Museo Nazionale degli Strumenti Musicali di Roma e il terzo del 1726 è conservato nel Musikinstrumenten Museum dell’Università di Lipsia.

Il Fortepiano costruito da Bartolomeo Cristofori nel 1720 conservato al Metropolitan Museum di New York

Il Fortepiano di Bartolomeno Cristofori però non ebbe successo in Italia e molti anni dopo, nel 1726, il costruttore tedesco di organi Gottfried Silbermann costruì una copia esatta del pianoforte di Cristofori che sottopose al parere anche di Johann Sebastian Bach. Lo strumento piacque molto anche a Federico II di Prussia che ne comprò ben sette.

E così il pianoforte, nato in Italia, divenne ben presto appannaggio dell’industria tedesca e poi francese ed inglese. La musica composta specificatamente per pianoforte iniziò ad essere scritta qualche anno dopo e la sua ascesa come strumento da concerto e da esecuzione solistica fu inarrestabile.

Solo di recente sono stati valorizzati i meriti di Bartolomeo Cristofori ad esempio con le grandi celebrazioni del 1955 nel tricentenario della sua nascita e con la recente istituzione a Padova dell’Associazione Bartolomeo Cristofori Amici del Conservatorio e del Festival Pianistico Internazionale “Bartolomeo Cristofori”.

per visualizzare il Doodle clicca qui

Anche Google ha omaggiato Bartolomeo Cristofori, nel giorno del suo 360° compleanno il 4 maggio 2015, con un Doodle dinamico che consente di capire meglio il cambiamento tecnologico apportato da Bartolomeo Cristofori e permettere di suonare, forte o piano, la melodia della Corale della Cantata 147 di Johann Sebastian Bach.

«La musica, negli ultimi secoli, ha attraversato periodi di profonde trasformazioni proprio per merito della mai sopita ricerca in campo costruttivo ed esecutivo da parte di compositori, interpreti, teorici e costruttori di strumenti musicali; essi a partire dal XVII secolo, seguendo le trasformazioni politiche, sociali e di costume delle varie epoche, hanno contribuito alla evoluzione culturale e, nel caso limitato alla nostra indagine, alla evoluzione tecnologica del pianoforte e della relativa letteratura.

Uno dei punti più affascinanti della critica pianistica è sempre stato quello di cercare di comprendere come i compositori suonavano e volevano che si eseguissero le loro opere ma anche come le eseguono gli interpreti d’oggi e del passato. Stabilire i parametri interpretativi entro i quali esercitare le proprie capacità artistiche e di conseguenza adottare quest’ultimi anche nel valutare le esecuzioni musicali altrui è forse il compito più arduo per un musicista.»

Prof. Pierluigi Secondi
Conservatorio Statale di Musica, Istituto di Alta Cultura Musica “Luisa D’Annunzio” di Pescara.

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Perché alcune musiche sopravvivono in epoche diverse e altre vengono dimenticate?

bach terminator

Ci sono pagine di musica che sono sopravvissute nei secoli, considerate dei “classici”; capolavori senza tempo diventati modelli di perfezione, suonati e risuonati nelle sale da concerto ancora oggi.

Probabilmente anche per alcune musiche del Novecento accadrà la stessa sorte e qualcosa di simile sta succedendo con alcuni brani già oggi considerati dei classici (di questo ne ho parlato qui: La nascita del repertorio dalle orchestre di musica classica alle cover band). Ma come mai alcune musiche sopravvivono, anche in epoche lontane e diverse da quelle nelle quali sono state composte, mentre altre vengono dimenticate?

La risposta secondo molti studiosi va rintracciata nel particolare rapporto che si instaura tra musica e pubblico. È uno dei processi che più interessano gli studiosi di Sociologia della Musica secondo cui il pubblico non va considerato solamente come un accidentale insieme di individui, «ma come un raggruppamento integrato della società globale e nei diversi gruppi, strati e classi, nella misura in cui esprime queste realtà ed in qualche modo le rappresenta».

Ogni genere musicale è sempre, inevitabilmente, in rapporto con un certo tipo di pubblico a cui si rivolge. E il pubblico, in quanto organo di ricezione, consente di misurare l’azione del compositore e rappresenta una sorta di registratore sul quale si scrive la storia della musica.

Come ricorda Marcello Sorce Keller, importante sociologo della musica, Gaston Rageot (1872-1940) sosteneva che l’opera d’arte è un fatto storico da studiare non solo nel momento della sua apparizione in un dato tempo e luogo, ma durante il suo viaggio nello spazio e nel tempo, nei momenti che lo seguono.

Il successo attesta che un’opera prodotta da una particolare persona è stata accolta da una collettività.

Gaston Rageot

È la comunità, il pubblico, a determinare cosa può sopravvivere. Si innesca un inevitabile processo di selezione con cui nel tempo viene a compiersi il destino di un’opera musicale che è dovuto non solo a fattori artistici, ma in misura più o meno rilevante anche a fattori sociali.  

«Se un’opera permane o resuscita attraverso i secoli, è perché è investita di una costante che si mantiene in un rapporto identico con un’altra costante, di natura sociologica, invariabile attraverso i secoli o almeno toccata da un coefficiente di cambiamento infinitesimale». [A. Machabey “Traité de la critique musicale” Paris, 1947. p. 45]. Oppure una seconda ipotesi: «La musica conterrebbe in potenza vari focolai d’attrazione i quali si attiverebbero uno dopo l’altro, seguendo un cammino del tempo, ma dispiegando tutti lo stesso potenziale, dal momento che sembra apprezzata nella stessa misura in tempi e ambienti diversi». [sempre Machabey 45-46]

Il ruolo sociale attivo del pubblico nella storia della musica non dovrebbe comunque mettere in ombra il ruolo della stessa arte musicale sulle trasformazioni estetiche e psicologiche del pubblico nel rapporto con le opere. Ad esempio Sorce Keller ricorda come la lunghezza delle sinfonie di Beethoven rappresentò un ostacolo per il pubblico dell’epoca, ma la Nona (l’ultima e la più lunga) non incontro questa difficoltà: il pubblico si era ormai abituato alla lunghezza.

Ci sono anche casi in cui il pubblico non ha attribuito quasi nessuna importanza ad opere destinate ad un futuro lungo successo. Questo ad esempio è successo con uno dei pilastri della storia della musica, Johann Sebastian Bach, le cui opere sono state dimenticate per quasi due generazioni e poi riscoperte nei primi anni dell’Ottocento grazie all’interesse di importanti opinion makers.

Grazie al musicologo tedesco Johann Nikolaus Forkel, autore della prima biografia di Bach, ebbe inizio la cosiddetta “Rinascita Bachiana” a cui seguì nel 1829 l’esecuzione della “Passione secondo Matteo” a cura del compositore e direttore Felix Mendelssohn-Bartholdy che fu accolta con grande successo. Nel 1850 nacque anche la “Società Bachiana” creata da importanti compositori dell’epoca, tra cui Robert Schumann, con il compito non solo di favorire l’esecuzione delle sue musiche, ma anche di pubblicarne l’intera opera. E Bach non fu mai più dimenticato.

E come mai invece altre musiche non hanno questa fortuna e vengono dimenticate?

Marcello Sorce Keller individua alcune possibili risposte di carattere generale che possono adattarsi a tutte le epoche e ai diversi generi musicali:

  • appartenere ad una tradizione musicale minoritaria o un genere poco importante
  • nel caso della presenza di un testo, l’utilizzo di una lingua poco conosciuta
  • l’uso di uno stile d’avanguardia in periodi storici in cui l’innovazione è scarsamente considerata
  • la mancanza di opinion makers

Come ha osservato la sociologa contemporanea Vera Zolberg: «da un punto di vista sociologico, l’opera d’arte altro non è che un momento in quel processo a cui partecipano più attori, operanti attraverso istituzioni sociali e seguendo tendenze storicamente osservabili».

logica musica

Eddie Vedder, John Lennon e una stella cadente

In ogni epoca fare musica e ascoltare musica può essere considerato come un collante di gruppo: nei campi di cotone, nelle risaie, nelle marce degli alpini, a Woodstock, ai concerti dei Beatles, nei rave: la musica è il collante di un’identità.

Ascoltare, ballare o suonare un certo tipo di musica è un modo per affermare la propria identità e sentirsi parte di una collettività. I concerti possono essere visti come dei grandi rituali collettivi: migliaia di persone unite dalla musica. Si canta, ci si emoziona, si balla; uno scambio fatto di sudore, passione, movimento e adrenalina.

Cosa succede quando l’energia di migliaia, anche decine di migliaia, di spettatori viene convogliata dalle stesse onde sonore e veicolata dalla stessa vibrazione?

«Succede che persino il cielo si commuove e gioisce con te» risponde Paola Maugeri nel suo libro “Resilienza” raccontando di un concerto magico, quello di Eddie Vedder, leader dei Pearl Jam, al Firenze Rocks del 2017.

Scenografia intimista perfetta, migliaia di persone pronte a un avvenimento speciale: il più grande concerto della sua carriera solista. (…) Un viaggio musicale intimo attraverso i pezzi più conosciuti dei Pearl Jam, quelli più toccanti dei suoi album solisti e alcune canzoni tra le più rappresentative che hanno trasformato la Visarno Arena in un amabile salotto sotto il cielo stellato.

In quell’atmosfera quai intimista, Eddie Vedder ha dedicato un bellissimo pensiero a John Lennon, sottolineando quanto “Imagine” sia stato un pezzo visionario, ma allo stesso tempo anche profondamente realista, e auspicando che il mondo vada nella direzione anelata dal geniale musicista di Liverpool.

Ed ecco che la vicinanza, la condivisione, l’afflato per un mondo migliore hanno creato un piccolo grande miracolo: sulle note finali di “Imagine” una magnifica stella cadente ha percorso luminosa il cielo facendo palpitare all’unisono i cuori di più di 50.000 esseri umani che, con il naso all’insù, si chiedevano a chi si doveva il piacere di quella perfetta sincronicità.

Nei giorni seguenti centinaia di messaggi increduli sono arrivati sui miei social: si trattava davvero di una stella cadente o di una trovata scenografica di altissimo livello? Era troppo bella e luminosa per essere vera, e com’era possibile che avesse lasciato la sua scia proprio sulle note di “Imagine”?

All’inizio pensavo si trattasse solo di battute scherzose, ma poi ho capito che in moltissimi avevano davvero pensato a una trovata della produzione.

Ebbene, temo che ormai siamo così abituati a vedere il mondo attraverso gli schermi di un telefonino da non sapere più riconoscere la realtà quando si palesa in tutta la sua bellezza e imprevedibilità, tanto da pensare che si tratti di finzione.

Quella stella cadente era vera!

Sì, vera!

Mandata dal cielo per ricordarci cosa può succedere quando ci lasciando andare alla bellezza della musica! Quando le note, i corpi e i volti parlando di pace e di libertà, non esistono più barriere, sovrastrutture, ipocrisie e ci sentiamo talmente liberi da godere appieno dell’amore universale che la musica può donarci. Amore per noi stessi, per gli altri e per il solo fatto di essere vivi!


da Paola Maugeri “Resilienza. Come la musica insegna a stare al mondo” ed. Pickwick, 2019 (pp. 207-211)


You may say I’m a dreamer, but I’m not the only one…”

Eddie Vedder “Imagine” (live, Firenze Rocks 2017)
(si vede anche la stella cadente, ultimi secondi del video a fine canzone)

musica

Se la musica “Non mi basta più” ci pensa l’influencer

«Money, it’s a gas», i soldi ti gasano, cantavano i Pink Floyd e sappiamo bene che musica e denaro non sono due mondi separati. Dal nostro passato quando i musicisti erano pagati per comporre opere che compiacessero ai nobili committenti, alla recente industria culturale che secondo il filosofo, sociologo e musicologo Theodor Adorno ha avvilito l’arte, l’ha resa un bene di consumo distorcendone il significato.

L’avvento della musica liquida prima e dello streaming oggi ha fatto vacillare pesantemente il mercato: la musica non muove più i soldi di un tempo. E molti degli stratagemmi per uscire dalla crisi sono legati ad attività di marketing, su cui la discografia investe 1,7 milioni di dollari l’anno [fonte: “La music economy” de Il Sole 24 Ore, luglio 2019]. La Universal Music Italia ha addirittura creato la “Universal Music Group and Brands” che si occupa esclusivamente di gestire il branding dei suoi artisti.

Ecco che i musicisti diventano testimonial di altri brand, con una massiccia presenza di product placement nei videoclip, foto e canali social, con l’endorsement e tanto altro.

Non è una novità di questi ultimi anni: si può pensare ad esempio a Michael Jackson che aveva legato il suo nome alla Pepsi Cola (matrimonio finito non bene); Tupac e Versace, il mondo del rap in generale è molto attivo in questo campo; la Ricordi che nel 1959 scriveva ai birrai italiani per promuovere il singolo “Birra” di Gaber e Jannacci; al tormentone estivo 2018 “Italiana” di Fedex e J-Ax in partnership con il Cornetto Algida.

Di tormentone in tormentone arriviamo all’estate 2020 con un capolavoro di marketing che coinvolge un brand (Pantene), una cantante (Baby K) e, per la prima volta, un’influencer (Chiara Ferragni). Non si tratta solo di product placement e di co-brading, ma di un’operazione commerciale studiata nel dettaglio, inedita e potenzialmente rivoluzionaria sul piano comunicativo e promozionale.

Chiara Ferragni, regina delle influencer e imprenditrice digitale per antonomasia, è da anni testimonial del brand Pantene che per il lancio della nuova campagna pubblicitaria estiva ha progettato a tavolino un piano d’azione pazzesco.

Lo spot pubblicitario della Pantene è stato girato non solo con la Ferragni, ma ha visto la partecipazione anche della cantante Baby K, a cui è stata commissionata la canzone utilizzata come sottofondo. “Non mi basta più”, pubblicata dalla Sony Music Italia, è nata per vincere, (come sfacciatamente dichiarato nell’intro del brano: “Chiara, è arrivato il momento / Attiviamo il piano? / Confermato, ci aspettano / Operazione avviata, vai con la hit”) destinata a diventare il tormentone dell’estate 2020 e il brand Pantene è stato inserito addirittura all’interno del testo nel verso: “Ti ho in testa come Pantene”.

Baby K – Non mi basta più (special guest Chiara Ferragni)


Ma non basta. Baby K ha ricambiato il favore a Chiara Ferragni e la bionda influencer ha così debuttato anche come “cantante” facendo una comparsata all’interno del brano recitando (più che cantando) qualche verso, come l’ormai iconico: “Questo è il pezzo mio preferito!” progettato per diventare un meme virale, e ovviamente così è stato. Quando si tratta di marketing e business la Ferragni sa il fatto suo: è capace di catalizzare l’attenzione mediatica e come in questo caso trasformare una pubblicità in un fenomeno di costume.

E ancora: nel videoclip della canzone non poteva mancare il product placement a Pantene che è stato piazzato subito, all’inizio, quando l’inquadratura stringe in primo piano sul trolley trasparente di Baby K pieno di creme e shampoo.

Con un attento studio delle mode attuali, nei canali social delle due biondissime testimonial è stata lanciata anche una challenge digitale con gli hashtag #IndossaITuoiCapelli e #EstatePantene accompagnata da un balletto co-creato da Chiara Ferragni e Baby K con invito a replicarlo, proprio come è di moda fare su TikTok.

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Una campagna pubblicitaria realizzata con una pianificazione capillare che coinvolge tutti i mezzi: dallo spot televisivo e radiofonico, alla carta stampata, campagne display, alla massiccia presenza digital che ha generato contaminazioni artistiche e creative.

Un’enorme operazione di branding con tante sfumature diverse. E intanto in questo articolo ho citato molte volte Pantene, Chiara Ferragni, Baby K, ma in realtà non ho mai parlato di musica. Eppure, hanno lanciato il tormentone dell’estate! La musica ormai “non basta più”?