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La musica sventola Bandiera Gialla

La musica è in quarantena. Stiamo vivendo questo marzo 2020 che passerà alla storia come uno dei periodi più oscuri per la musica e lo spettacolo: tutto chiuso, rinviato a data da destinarsi.

La musica sventola bandiera gialla, come accadeva nei secoli scorsi al tempo del colera: se in un’imbarcazione c’erano dei malati in quarantena si issava una bandiera gialla per dichiarare lo stato di emergenza. Alla larga: appestati a bordo!

Negli anni ’60 pensare al vascello Musica che sventola bandiera gialla non era un paragone così triste come oggi e ha dato lo spunto creativo ad un programma rivoluzionario per giovani che ascoltavano musica da “appestati”. A due grandi nomi della televisione italiana venne un’idea geniale: una trasmissione radiofonica interamente dedicata ai generi musicali di tendenza per le nuove generazioni, all’epoca vietati dalla RAI e dalle trasmissioni nazionali. Erano Gianni Boncompagni e Renzo Arbore, il programma andò in onda per la prima volta il 16 ottobre 1965 su Rai Radio 2, si chiamava “Bandiera Gialla” e iniziò con questo annuncio:

“A tutti i maggiori degli anni 18, a tutti i maggiori degli anni 18, questo programma è rigorosamente riservato ai giovanissimi, ripeto, ai giovanissimi, tutti gli altri sono pregati quindi di spegnere la radio o sintonizzarsi su altra stazione…”.

E poi si alzò il volume del primo brano andato in onda: “T-Bird” di Rocky Roberts. È stato un successo immediato. Uno spazio per “malati di musica” non adatto agli adulti. Una rivoluzione culturale. Ogni settimana venivano proposte 12 novità musicali straniere, soprattutto inglesi ed americane, ma anche nuovi artisti italiani che stavano iniziando a spopolare, era il fenomeno “beat”. Le canzoni venivano votate dal pubblico di ragazzi, presenti e protagonisti alla diretta in studio, e il vincitore era proclamato “disco giallo”.

Rocky Roberts – “T-Bird” (video del 1974)


«Fino al 1965, anno in cui l’Italia riceve il boom che c’era già stato altrove, i giovani semplicemente non esistevano – spiega in questa intervista Roberto D’Agostino che in Bandiera Gialla ha esordito come disk jockey – Impensabile che avessero propri gusti, per giunta in ambito musicale. C’era il bimbo che, ascoltando le canzonette in compagnia dei genitori, aspettava di crescere imitando la madre o il padre. Negli indici di gradimento d’ascolto Rai, lo ricorda Arbore, i diciottenni non erano contemplati. Il loro parere non interessava a nessuno».

Solo in un anno i dischi trasmessi furono 672. “Bandiera Gialla” fu un fenomeno culturale e di costume: i ragazzi per la prima volta si sentivano protagonisti, considerati e non più esclusi dalle normali programmazioni: stava nascendo una nuova categoria sociale. Un programma che ha rivoluzionato anche la produzione e il mercato discografico: era un potente canale di promozione e favorì la pubblicazione e la distribuzione di queste musiche anche in Italia contribuendo ad un aumento di vendite dell’80%.

Oggi come allora, siamo noi Bandiera Gialla!

Gianni Pettenati – “Bandiera Gialla” (1967)
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La musica non fa valentuomini, ma buffoni

Se vi dicessi che il Ministro dell’Istruzione ha dichiarato che la musica non va insegnata a scuola perché «non fa valentuomini, ma buffoni» mi credereste?

È tutto vero. Siamo nel 1865 e Francesco De Sanctis, Ministro dell’Istruzione nel 1861, consigliò al suo successore Giuseppe Natoli dalle colonne del giornale “L’Italia” di non insegnare alcune materie ritenute superflue e ne elencava alcune tra cui il Francese, la ginnastica e “il ballo” ad indicare con spregio la Musica.

Tutta questa roba, non bisogna, non si può digerire, non fa valentuomini, ma buffoni. Quello che i giovanetti debbono saper bene è la loro lingua, scriverla correttamente, esprimere i loro pensieri con ordine e semplicità; poi saper la storia e la geografia, l’aritmetica, la geometria e principi di algebra. […] Il neces­sario per i giovanetti non sono le cognizioni, ma l’acquistar l’abito di ragionare giusto, di fermarsi su le cose, di considerarle per ogni verso. Acquistato quest’abito, acquistato il giudizio, si vola poi sopra tutto il sapere, si comprende facilmente, si legano insieme le cognizioni che si vengono acquistando.

Il testo fu ripubblicato nel libro di Francesco De Sanctis “L’istruzione media. Omaggio alla casa editrice Laterza nel X Congresso della Federazione Nazionale fra gl’insegnanti delle Scuole Medie” (Laterza, 1919). Per De Sanctis, gli alunni non devono acquisire «le cognizioni, ma l’acquistar l’abito di ragionare giusto»: la musica e le discipline artistiche in generale, secondo il letterato, non si confanno a tale scopo. O meglio, leggendo per intero l’articolo, il senso del discorso di De Sanctis era che per voler insegnare troppo, si rischia di finire per non insegnare nulla.

Sono passati 155 anni, alcune materie si sono attivate, ma certi pregiudizi non sono molto cambiati. Fare il musicista non viene considerato come un mestiere, ma un hobby, un passatempo, un capriccio, una sorta di moderno giullare alla mercé delle corti televisive. La Musica non è arte: è un sottofondo sonoro delle nostre giornate, la colonna sonora di viaggi in auto, qualcosa da canticchiare sotto la doccia.

In realtà lo sappiamo che la Musica è importante, che è Cultura, che alcune canzoni dovrebbero addirittura essere insegnate a scuola, ma in fondo “sono solo canzonette” e non le prendiamo mai troppo sul serio. Forse la colpa è di alcuni buffoni che riempiono le pagine dei giornali e dei programmi televisivi che si nutrono di scandali e gossip, aumenta lo share e aumenta il fatturato.

Dovrebbe cambiare il modo di approcciarsi alla Musica cercando di capirla per il suo valore: da un ascolto passivo passare ad un ascolto attivo. Il significato della Musica non sta solo negli oggetti musicali, ma in ciò che la gente fa con la musica: come la sia ascolta, come la si suona e perché. Studiare la Musica non è solo studiare la storia delle opere e dei grandi nomi: è la storia degli uomini che hanno fatto, ascoltato e parlato di musica.

Parlare di musica è parlare della società di ieri e di oggi. Parlare di Musica è parlare di storia, di arte, di comunicazione, di evoluzione, rivoluzione, pensiero, progresso e scoperta. Ma anche di matematica, geometria, scienza, filosofia, psicologica, medicina… Ci si potrebbe basare un intero programma scolastico!

È un mondo che va scoperto cercando con curiosità di
ascoltare (audio)
osservare (video)
imparare (disco).

Puoi ascoltare questo articolo nella sua versione Podcast cliccando qui.

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Perché hanno inventato Sanremo?

Non c’è bisogno di presentazioni “Perché Sanremo è Sanremo” recitava un vecchio jingle pubblicitario. È “il” festival per eccellenza, il momento in cui gli italiani da esperti di politica e allenatori di calcio diventano critici musicali. Durante la settimana di Sanremo tutto ruota intorno a Sanremo: polemiche, provocazioni, vallette, abiti e la musica è quasi un sottofondo. Tutto nella norma, perché scandalizzarsi ogni anno?

Sanremo è “lo specchio della nazione” ed è spesso oggetto di studio non tanto come fenomeno musicale, ma come fenomeno di costume e “specchio” di qualcos’altro. Raccontando i suoi 70 anni di vita si potrebbe raccontare l’Italia perché Sanremo è l’emblema della società italiana; la storia della Musica non è solo la storia delle opere, delle canzoni e dei grandi nomi: è la storia delle persone che hanno fatto, ascoltato e parlato di Musica.


Perché Sanremo è Sanremo?

Lo spiega molto bene Jacopo Tomatis nel suo libro “Storia culturale della canzone italiana” in cui racconta:

La canzone italiana così come la conosciamo – la sua “invenzione” – avviene nel corso di processi culturali più complessi, di cui Sanremo rappresenta uno dei più significativi snodi simbolici e dei quali la Rai e l’editoria musicale sono i principali attori.

Spesso si dimentica il sottotitolo del Festivàl e molte polemiche sono legate all’esclusione di determinati generi e alla “classicità” delle canzoni in gara, ma Sanremo è il festival della canzone italiana, anzi ha avuto un ruolo determinante nella costruzione dell’idea di canzone italiana che ci è familiare oggi.


Il primo articolo che il Radiocorriere ha dedicato a Sanremo nel 1951 alle porte della prima edizione lo descriveva proprio come un’iniziativa volta a valorizzare la canzone italiana «il cui intento principale è quello di promuovere un elevamento nel campo della musica leggera italiana, compatibilmente con i presupposti “popolari” propri del genere in se stesso. (…) Con una serie di iniziative, la Rai cerca appunto di promuovere la rinascita di uno spirito veramente attivo nella canzone italiana e l’acquisizione di una individualità spiccata, indirizzando in tal senso gli autori e gli editori musicali».

Il senso della manifestazione, come è noto, è quello di valorizzare ed elevare qualitativamente le espressioni della musica leggera del nostro paese.

Nunzio Filogamo, presentazione della seconda edizione del Festival di Sanremo, 1952

Quando nacque l’idea del Festival, Sanremo era mal ridotta: il teatro comunale era stato distrutto dalle bombe e c’era la voglia di tornare un’importante meta turistica iniziando con l’incrementare le visite nella stagione invernale. Siamo nel momento della ricostruzione dopo la Seconda Guerra Mondiale, il momento in cui il popolo doveva ritrovare gli ideali e il senso di patria che si era smarrito: aveva bisogno di una canzone che esprimesse tutto questo.

In quegli anni esisteva solo la radio, era la protagonista, e le canzoni diffuse divennero il simbolo della nostra società. Un senso di italianità che fonda le radici nei canti napoletani, nelle romanze ed è legata a filo doppio al “bel canto” della tradizione lirica.


Siamo riusciti a creare il tifo per la canzone

A riprova di come Sanremo nasca in un contesto di ripensamento generale delle politiche culturali della Rai, Jacopo Tomatis trova molti riferimenti in articoli di giornale e nelle rubriche radiofoniche dell’epoca in cui si parla molto spesso della volontà di valorizzare la musica leggera andando a recuperarne i suoi caratteri originari. Tutti indizi che suggeriscono come «il Festival nasca nel quadro di un progetto ben orchestrato da parte della Rai».

La nascita e il successo di una manifestazione come questa era un modo per la Rai di soddisfare la propria domanda di canzoni e rinforzare il controllo non solo sull’offerta, ma anche nei contenuti e nello stile.

La Rai era la maggior committente di musica leggera in Italia e per questo motivo il principale interlocutore dell’editoria musicale. Prima della Guerra l’Eiar (l’Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche) non aveva un numero di adeguato di canzoni per la messa in onda e nel 1956 il problema era l’opposto: in Italia la produzione di canzoni era troppo abbondante, il successo di Sanremo aveva reso necessaria l’attivazione di concorsi per la selezione dei brani.

Il direttore del Casinò di Sanremo, Pier Bussetti, su domanda di Mario De Luigi nel 1953 sul successo delle prime edizioni commenterà alla stampa: «Siamo riusciti a creare il tifo per la canzone».

Grazie alla crescente domanda del pubblico nasceranno nuovi festival e concorsi; la stampa popolare inizierà ad occuparsi dei nuovi divi della musica leggera e “Sorrisi e canzoni” (al tempo “Sorrisi e canzoni d’Italia”) nel 1952 si aggiudica l’esclusiva sulla pubblicazione dei testi delle canzoni di Sanremo e insieme ad articoli di costume, gossip di star e jet-set, diventerà una delle riviste di maggior successo. Scrive Tomatis:

I mercati e le reti nazionali creati dai mass media in questi anni contribuiscono alla creazione di una “società italiana” quale comunità geografica percepita, diffondendo immagini (e, naturalmente, suoni) da tutta la nazione.

Come spesso dicono “l’Italia è una Repubblica fondata su Sanremo” e il resto è storia.

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Prima di Young Signorino e Junior Cally c’erano i Beatles

Cinture ben allacciate, ci lanciamo in un salto (nel vuoto) temporale un po’ azzardato: dal 1968 con “O-bla-di o-bla-da life goes on brahhh” dei Beatles al 2019 con “Alfa-Alfa-Alfabeto rappapappapappapà” di Young Signorino. È un paragone così blasfemo? Forse sì, ma c’è sempre un senso “anche se un senso non ce l’ha”, citando Vasco che nel senso del non senso cade in piedi.

La Musica non è sempre abbinata alle parole, pensiamo semplicemente a tutta la Classica sinfonica, ma la musica Leggera vede nella canzone la sua forma musicale più diffusa. Un’unione di musica e parole nel classico susseguirsi di strofa e ritornello, con eventuali aggiunte come incisi, assoli, bridge, intro e outro. Un connubio estremamente efficace sul piano comunicativo, che rende possibile la trasmissione di significati in maniera semplice e diretta.

Un momento cardine per l’evoluzione della canzone è avvenuto tra gli anni ’50 e ’60, quando non viene più vissuta solo come un evento musicale, ma comincia a diventare un fenomeno culturale di massa: in un concentrato di 3 minuti di parole e musica vengono racchiusi ideali, ansie ed emozioni di una generazione. Per la prima volta i giovani iniziarono ad affidare alle canzoni i loro messaggi. La svolta maggiore arrivò con il Rock’n’Roll. Ritmi scatenati, movenze provocanti, dissacranti, provocatorie e modalità espressive come urla, gemiti e sospiri. Il Rock riporta la musica alla sua parte più ancestrale e primitiva, reintroducendo l’elemento dionisiaco che la tradizione occidentale aveva represso e inibito.

Tutto questo in linea col quel periodo storico così ricco di cambiamenti e passioni. Sono canzoni dirette, senza mezze misure, esempio di quell’irrefrenabile voglia di gridare la propria libertà: un parallelo in musica di quell’epocale cambiamento generazione in atto. Partendo banalmente da Chuck Berry, Elvis, Beatles, Rolling Stones, ai Doors, Led Zeppelin, The Who con “My generation”… Un elenco lunghissimo che andrebbe a raccontare la storia del Rock.

Tra gli outsiders voglio ricordare “Je t’aime… moi non plus” di Serge Gainsbourg e Jane Birkin, una apparente dolce ballata sussurrata, ma dal testo che poco lascia all’immaginazione e che provocò uno spropositato scandalo nell’estate del 1969.

Serge Gainsbourg e Jane Birkin – “Je t’aime… moi non plus” (1969)


Un altro passo nell’evoluzione della canzone: il confine tra “cantato” e “parlato” divenne sempre più labile e da oltreoceano arrivò anche in Italia. Un’Italia anni ’60 aperta ai momenti trasgressivi dell’avanspettacolo e alla satira da cabaret. Ecco che troviamo Fred Buscaglione con “Eri piccola così” e Paolo Conte con “Vieni via con me”: due canzoni che reggono tutte sull’interpretazione di due simpatiche canaglie dall’espressività unica. Intonazione e inflessione del suono uniche, come per Lucio Dalla che nelle sue improvvisazioni ritmico-melodiche ha creato uno stile indistinguibile che scandisce nelle sue canzoni i momenti di maggior coinvolgimento emotivo.

Restando nel giocoso non si può non citare “Supercalifragilistichespiralidoso” dell’iconica Mary Poppins, e per tornare al pop italiano “Prisencolinensinainciusol” di Adriano Celentano, una delle stramberie del Molleggiato (difficilissimo scioglilingua che giocava sull’assonanza con la lingua inglese), un “rap ante litteram” come affermerà poi Celentano nel 1994. Tra il parlato e il giocoso troviamo anche l’intramontabile Mina con, ad esempio, “Ma che bontà” (1977) e “Le mille bolle blu” dove si ha un trionfo dell’onomatopea con quel “bllll”, effetto vocale che richiama il rumore delle bolle di sapone.

Per arrivare ai lustrini e alle paillettes degli anni ‘80 con il testo nonsense di “Cicale” di Heater Parisi, sigla della trasmissione televisiva di Rai1 “Fantastico 2” (1981), alle provocazioni di Vasco Rossi con “Bollicine” (Coca cola chi vespa mangia le mele / Coca cola chi non vespa più e mangia le pere) e “Lamette” di Miss Rettore (“Dammi una lametta che mi taglio le vene”) fino alla voce dei giovani degli anni Zero con “Wale (Tanto Wale)” dei dARI.

Vasco Rossi – “Bollicine” (live 1987)

Riassumendo per grandi salti, la canzone nella sua unione di musica e parole è sempre stata un potente mezzo di comunicazione, a cui le giovani generazioni hanno affidato i propri messaggi, partendo dagli anni più rivoluzionari che hanno portato a trasgredire le regole del classico “bel canto” a volte urlando, a volte sussurrando, a volte parlando.

Ecco che dal Rock’n’Roll arriviamo all’Hip Hop e al rapping, fenomeno socialmente e culturalmente noto per essere una musica che si basa quasi esclusivamente sul messaggio contenuto nei suoi testi, più parlati che cantati su basi strumentali. Testi che esaltano gli aspetti ritmici delle singole parole, con un linguaggio musicale essenziale, privo di fronzoli, diretto e ripetitivo. Quasi un estremismo di quella rivoluzione iniziata negli anni ’60, un vero e proprio movimento culturale urbano nato già negli anni ’70 sulle strade di sobborghi multiculturali americani, come il Bronx, dove i giovani hanno trovato ancora una volta nella musica un mezzo per esprimere la propria identità e creare un’identità globale in cui riconoscersi.

Oggi questo genere musicale ha conquistato tutto il mondo, generando un imponente fenomeno commerciale e sociale, rivoluzionando il mondo della musica, della danza, dell’abbigliamento e del design. Una sua evoluzione è il tanto discusso Trap (finalmente ci siamo arrivati!), il genere del momento, quello in cui si rispecchiano i giovani di oggi.

A che punto dell’evoluzione siamo? Siamo nei sobborghi di Atlanta negli anni ’90, nelle “trap house” le case dove si preparava e si spacciava droga e dove molti giovani sono finiti “in trappola”. Si comincia quindi a cantare di un mondo di droga e soldi, il beat rispetto al Rap è più spinto, fatto su basi elettroniche, sintetiche, con molto autotune sul cantato. Dal 2010 la Trap ha cominciato a perdere l’animo più sotterraneo e controculturale della scena Rap, approdando al mainstream e ponendo fine a tutti i discorsi sul desiderio di riscatto dalla trappola.

Proprio nel 2010 le prime influenze sono arrivate anche in Italia, fino ad esplodere come vero fenomeno nel 2015 con il successo del trapper Sfera Ebbasta e poi la Dark Polo Gang, Ghali, Achille Lauro (per citarne alcuni) e arrivare alla fine del nostro salto nel vuoto con Young Signorino che nel 2018 è stata la pietra dello scandalo con la sua più che criticatissima “Mmh Ha Ha Ha” dal testo nonsense mentre il 2020 inizia con la polemica di Junior Cally a Sanremo.

Siamo come sempre davanti alla fotografia di una generazione. Una musica di origine afroamericana, nata nei sobborghi delle metropoli degli Stati Uniti che celebra stili di vita marginali: non è una storia già sentita?

Molti definiscono la Trap come “la colonna sonora perfetta per le stories di Instagram”, dura 24 ore e poi scompare. È la colonna sonora di una generazione dominata dai rapporti virtuali in un’epoca piatta. Sono giovani che parlano ai giovani utilizzando il linguaggio che usano abitualmente: grammatica da social network, chat di WhatsApp e serie tv.

Era da tempo che nella storia della musica non si aveva a che fare con un fenomeno di così grande portata, dirompente, forte, così forte da diventare popolarissimo e criticatissimo.

Tutti ne parlano. È la nuova “cattiva musica” da insultare, un po’ come è stato anche per il Rock’n’Roll ai tempi di Elvis. Lo hanno già ricordato in tantissimi: di esempi negativi la storia della musica è piena e non ne sono esenti nemmeno gli intoccabili Beatles. La storia del gusto procede in un continuo ciclo di trasgressione delle convenzioni della stagione precedente, riassorbimento e normalizzazione.

A difesa del passato si può dire che la Trap è una musica prodotta volutamente male, cantata volutamente male, senza ricercatezza, senza un messaggio per cui lottare (penso, ad esempio, al Punk). Il problema non è la Trap, non ha inventato nulla.

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La Musica (non) è un linguaggio universale – parte 2

La Musica è un linguaggio universale? Aggiungo altri spunti di riflessione su questo articolato e complicato argomento. Nell’articolo precedente ho accennato agli studi di Etnomusicologia, disciplina molto affascinante e i cui studi aprono interi universi sonori totalmente alieni a noi occidentali. Ma anche restando all’interno della nostra Europa ci possono essere musiche di cui non conosciamo il codice comunicativo e che non capiamo, fraintendiamo e che alle volte non riusciamo nemmeno a concepire come musica. Schönberg ad esempio:


Al nostro orecchio suona sicuramente più familiare rispetto al canto della tribù del Congo di cui si parlava, ma non credo sia di facile comprensione… e cambiando decisamente registro:

Per il nostro retaggio culturale una musica Rock molto distorta come questa e il genere Black Metal viene automaticamente associato a qualcosa di negativo, ma non è sempre così. Gli Horde infatti possono essere considerati una band “cristiana” (esiste anche una corrente chiamata White Metal o Christian Metal) e hanno causato polemiche e sconcerto all’interno della scena Black Metal proprio perché potatori di testi a favore del Cristianesimo in netta antitesi con i dettami del movimento.

Questi sono degli esempi che portano all’estremo la Classica e il Rock, ma anche restando all’interno del Pop più tradizionale vi sono casi di eclatanti fraintendimenti. Un esempio è “Every Breath You Take” il brano dei Police che nel 1983 raggiunse la vetta delle classifiche mondiali. Suona come una confortante canzone d’amore, in realtà il significato lo ha spiegato proprio Sting: «È una canzone cupa che parla di controllo, gelosia, sorveglianza, ma c’è chi crede che sia un brano romantico e vorrebbe usarla al proprio matrimonio.»
Il testo recita così: “Ogni movimento che fai, ogni promessa che rompi, ogni sorriso che fingi, ogni barriera che innalzi, io starò a guardarti”. Anche una dolce melodia può portare messaggi oscuri.

Un altro caso interessante è “Born in U.S.A” del Bruce Springsteen che racconta con parole feroci e piene di rabbia la triste vicenda di un reduce del Vietnam. Il famosissimo ritornello urlato a squarciagola dal Boss è ormai un inno al patriottismo americano, mal interpretato anche dall’allora presidente Ronald Reagan che disse ad un comizio: «Il futuro dell’America resta nel messaggio di speranza che si trova nelle canzoni di un uomo ammirato da tanti giovani americani: Bruce Springsteen del New Jersey».

Come si diceva ad inizio articolo, la musica sovverte le regole della comunicazione: l’ascoltatore può conoscere il codice con cui è stato composto il brano e a decifrare correttamente il messaggio del compositore, però può anche non conoscerlo e interpretarlo in maniera non corretta o non riuscirci affatto. E può succede anche restando all’interno di una cultura e di un linguaggio condiviso.

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La Musica (non) è un linguaggio universale – parte 1

In un precedente articolo in cui analizzavo la Musica come mezzo di comunicazione, concludevo con una domanda: “La musica è un linguaggio universale?”. La risposta spontanea è un “sì” convinto: la musica viene spesso definita come il collante dell’umanità, qualcosa che ci unisce tutti e permette di comunicare e veicolare messaggi superando barriere linguistiche e culturali.

“La Musica è il linguaggio magico del sentimento” è una delle mie citazioni preferite che esprime l’idea romantica e la potenza comunicativa di questa forma d’arte, e che condivido. Anche se è un ragionamento alle volte semplicistico che si basa sulla visione eurocentrica (o occidentale in generale) che abbiamo del mondo.

  • Se per “linguaggio universale” intendiamo l’universale come qualcosa che è presente in tutte le culture l’affermazione è vera in quanto una forma di espressione umana basata su produzioni sonore esiste in ogni civiltà. Anzi, non esistono culture senza musica come spiegavo in questo articolo citando gli studi di John Sloboda.
  • Se invece come “linguaggio universale” intendiamo una lingua comprensibile a tutti, un mezzo che permette di comunicare scavalcando barriere linguistiche e culturali la questione si fa più complessa.

Nel precedente articolo “Musica, comunicazione e linguaggio” era emerso come la musica sovverta le regole della comunicazione secondo cui il mittente e il ricevente (il compositore e l’ascoltatore nel nostro caso) devono condividere il codice con cui è costruito il messaggio (il brano musicale). Nell’esperienza musicale il ricevente ha un ruolo attivo e indipendente dal mittente: l’ascoltatore può conoscere il “codice” e riuscire a decifrare correttamente il messaggio del compositore, però può anche interpretarlo in maniera non corretta o non riuscirci affatto.

Da queste basi molto teoriche cerco di passare ad esempi più pratici chiamando in aiuto l’Etnomusicologia, la disciplina che studia le musiche del mondo. La musica è un fenomeno complesso ed è portatrice di significati e valori che variano da cultura a cultura: ad esempio la musica strumentale del ‘700 europeo è molto differente rispetto a quella suonata in un villaggio Maori, è quasi “altro”. L’Etnomusicologia si interessa alle musiche relativamente al loro contesto, sia di produzione sia di ricezione, come espressione culturale: deve essere conosciuto il contesto per coglierne il significato.

Come per la parola, come i diversi linguaggi, la musica adopera codici e sistemi musicali diversi a seconda delle culture, comprensibili solamente a chi ha appreso quel particolare linguaggio e incomprensibili a chi non lo conosce.

Ad esempio, cosa siamo in grado di capire da questo ascolto?


Comprensione testuale a parte, è un canto propedeutico alla caccia, un canto rituale per un matrimonio, oppure per un funerale? Bisogna conoscere il contesto e la cultura di questo popolo per coglierne il significato.

Ad esempio, i pigmei Mbenzélé che vivono nella foresta pluviale del Congo considerano le emozioni negative come un disturbo all’armonia della foresta e per questo considerate pericolose. Per la loro cultura la musica ha la funzione di scacciare le emozioni negative: quando un bambino piange, se gli uomini hanno paura di andare a caccia o durante un funerale cantano una musica che possiamo definire “allegra”. E un pigmeo del Congo cosa riuscirebbe a capire seduto in un palchetto de La Scala alla prima della Tosca o tra il pogo di un concerto Rock?

L’Etnomusicologia è una disciplina molto affascinante e i suoi studi aprono interi universi sonori totalmente alieni a noi occidentali. Questi sono solo piccoli spunti per un inizio di riflessione sull’argomento. La questione sull’esistenza o meno degli “universali” in musica è una domanda al limite della metafisica, su cui si discute ancora e che si sono posti molti etnomusicologi. Anche perché bisognerebbe definire quanto “universali” debbano essere gli “universali” per potersi considerare tali.

Una delle teorie più interessanti a riguardo è quella proposta dal filosofo e mistico armeno Georges Ivanovitch Gurdjieff (1877-1949). Secondo Gurdjieff esiste una “musica oggettiva” capace di esercitare effetti precisi e voluti a tutti gli ascoltatori, indipendentemente dalla cultura e dal gusto personale.


Sono studi che si basano su precisi rapporti fra sequenze sonore: particolari stimoli acustici incorporati in un segnale musicale possono generare le stesse risposte emotive. Un semplice esempio: un ritmo incalzante aumenta il battito cardiaco, mentre un andamento lento ha un effetto generalmente calmante.

Concludo con le parole del sociologo Marcello Sorce Keller nel suo saggio “Musica come rappresentazione”, secondo cui la pretesa universalità del fenomeno musicale non risiede nel fatto che le sue manifestazioni locali siano sempre universalmente comprensibili e apprezzabili anche da chi le vive come esterne dalla propria cultura. La musica è da intendersi come fenomeno universale nel senso che ovunque essa si manifesta ha una forte capacità di caratterizzare i gruppi umani. Ogni singola performance articola ed esprime i valori di uno specifico gruppo sociale.

Nessuna performance è mai concepita, alla nascita, per avere un valore universale. La musica è, al contrario, una celebrazione del “localismo” delle genti. Per questo gli etnomusicologi parlano di “musiche” al plurale.

Marcello Sorce Keller

Le musiche sono infatti tutte radicate e ancorate ad un determinato tempo, luogo, vissuto storico e contesto culturale. Continua Sorce Keller: «è molto difficile per chi ascolti musica classica indiana o il gamelan balinese nel proprio appartamento a Milano, con l’aiuto di un riproduttore CD, intuire quale senso queste musiche potessero avere nel contesto in cui nacquero e nell’occasione-funzione per cui erano state pensate. Ma non importa (o, per lo meno, importa fino ad un certo punto). Rimane il fatto straordinario che noi si sia diventati tanto attivi nella nostra capacità di ascoltare, tanto creativi, da imputare a quelle forme sonore che provengono da lontano, nello spazio e nel tempo, un “senso” nostro, risultato della nostra creatività e in quanto ascoltatori che è congruo alle esigenze del nostro vivere da occidentali».

Gamelan Balinese
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Tutto è musica, anche il rumore. Basta metterci una cornice?

A meno che non viviate tra le stelle (beati voi!) sicuramente non potete non essere stati colpiti dalla recentissima polemica relativa all’ultima opera d’arte di Maurizio Cattelan (con l’accento sulla a, è padovano): la banana appiccicata al muro con del nastro adesivo. Un polverone mediatico che mi ha fatto tornare alla mente un passo dell’autobiografia di Frank Zappa dal titolo “La cornice”:

«Nell’arte la cosa più importante è la cornice. Nella pittura è letteralmente così, per le altre arti solo in senso figurato, perché senza quell’umile oggetto non è possibile capire dove finisca L’Arte e dove inizi Il Mondo Vero. È necessario metterci un contenitore attorno o altrimenti si direbbe: che cos’è quella merda sul muro?

Se John Cage per esempio dicesse: “Ora metto un microfono a contatto con la gola, poi berrò succo di carota e questa sarà la mia composizione”, ecco che i suoi gargarismi verrebbero qualificati come una sua composizione, perché ha applicato una cornice, dichiarandola come tale. “Prende o lasciare, ora Voglio che questa sia musica”.»

“I’m famous, but most people don’t even know what I do” Frank Zappa

Quindi che cos’è Musica? Come per le altre arti, basta che qualcuno la definisca tale e lo diventa? È una delle grandi questioni che hanno animato le discussioni artistiche da inizio Novecento, si sono scritte intere biblioteche e ci sono interessantissime opinioni di musicologi, sociologi, etnomusicologi, filosofi… Frank Zappa però mi ha ricordato John Cage. Vi parlo di “rumore”: può essere Musica?

Ultimamente si fa un gran parlare della nuova figura dei Sound Designer o Sound Artist: artisti sonori che trasformano i rumori prodotti da oggetti e i suoni dalla vita di ogni giorno in musica. Ascoltano, registrano, campionano e danno voce e musicalità a ciò che comunemente è percepito come rumore.


Viene percepito e raccontato come qualcosa di molto innovativo. Si può arrivare alla sonorizzazione della stazione di Torino Porta Susa, alla creazione di paesaggi sonori campionando i suoni delle macchine del caffè, ad installazioni artistiche che portano la pioggia all’interno di un museo. Qualcosa di futuristico.

Oggi, il Rumore trionfa e domina sovrano sulla sensibilità degli uomini. Questa evoluzione della musica è parallela al moltiplicarsi delle macchine, che collaborano dovunque coll’uomo. Non soltanto nelle atmosfere fragorose delle grandi città, ma anche nelle campagne, che furono fino a ieri normalmente silenziose, la macchina ha creato oggi tanta varietà e concorrenza di rumori che il suono puro, nella sua esiguità e monotonia, non suscita più emozione”

Questo è qualcosa di Futuristico! Eppure risale all’11 marzo 1913: è un estratto da “L’arte dei rumori”, uno dei Manifesti del Futurismo scritto da Luigi Russolo che potete leggere per intero cliccando qui. Russolo dà il via al processo di emancipazione del suono e del rumore dalla musica tradizionale e la sua trasformazione in musica, anche se qualche accenno si può ritrovare nella musica classica di fine Ottocento, come i famosi campanacci da mucca nella Sinfonia n. 7 di Mahler.

La visionarietà di Luigi Russolo ha portato alla teorizzazione del “suono-rumore”, delle sei famiglie di rumori dell’orchestra futurista, fino alla creazione degli “intonarumori”.
Il rumore inizia ad essere considerato come suono musicale: concetto che si è espresso in tutta la sua portata rivoluzionaria negli anni Cinquanta, anche grazie alle nascita delle nuove tecnologie come sintetizzatori e registratori.

Cosa sia considerabile come musicale e cosa no dipende dal concetto soggettivo di Musica. In potenza a nulla dell’esistente è preclusa la possibilità di diventare musicale.

Tra gli artisti che più hanno studiato e affrontato queste tematiche spicca John Cage che nel suo testo “Il futuro della musica: il mio credo” (1937) scrive: «Ovunque ci troviamo, quello che sentiamo è in gran parte rumore. Quando lo ignoriamo ci disturba. Quando gli prestiamo ascolto, lo troviamo affascinante (…) Noi vogliamo catturare e controllare questi rumori, usarli non come effetti sonori bensì come strumenti musicali.»

Una chiara ripresa dei concetti espressi da Russolo che porterà Cage a concepire potenzialmente tutto come musica: i suoni del mondo erano musica, anche il battito del cuore poteva essere musica. Cage trovava musicale anche il suono della trafficatissima Avenue of the Americas, la Sesta Strada di New York. Sirene, clacson, lo stridore dei freni, il ritornello dell’autobus che passava con regolarità: “Ma la sente questa musica?” chiedeva.

John Cage è stato un “compositore ed esecutore di musiche avveniristiche” (così lo definì “La Stampa” nel 1959) arrivò ad esempio a comporre opere con cactus secchi raccolti nel deserto (“Child of Tree” del 1975 e “Branches” del 1976) in cui gli strumenti di ogni performer includono uno o più cactus amplificati, insieme ad altri oggetti di origine vegetale o animale.


Nel 1956 John Cage partecipò come esperto di funghi al telequiz “Lascia o raddoppia?” condotto da Mike Bongiorno e vinse 5 milioni di lire. Durante lo spettacolo si esibì in un concerto chiamato “Water Walk” in cui gli strumenti erano: una vasca da bagno, un innaffiatoio, una pentola a vapore, cinque radio, un pianoforte, cubetti di ghiaccio, una pentola a vapore e un vaso di fiori.

Surreale il dialogo tra John Cage e Mike Bongiorno:
B: Bravo bravissimo! Beh, il signor Cage ci ha dimostrato che indubbiamente se ne intendeva di funghi… quindi non è solo un personaggio venuto su questo palcoscenico per fare strambe esibizioni di musica strambissima.
C: Un ringraziamento a… funghi, alla Rai e a tutti genti d’Italia.
B: Arrivederci: torna in America o resta qui?
C: Mia musica resta.
B: Ah, lei va via e la sua musica resta qui: ma era meglio che la sua musica andasse via e che lei restasse qui!

Cage replico la performance “Water Walk” in un famoso programma televisivo americano nel 1960 davanti ad un pubblico tra lo sconvolto e il divertito (potete vederla cliccando qui). Così commentò la critica musicale Laura Paolini:

Arte alta e bassa cominciavano a sentirsi più a proprio agio l’una con l’altra. Tutti videro qualcosa mai visto prima. Tutti si fecero un’opinione. Così si forma un pubblico.

Laura Paolini

La ricerca di John Cage non è solo questo: arriva a concepire la musica aleatoria e a studiare il silenzio, come assenza di rumori e al contempo creatore di musica. Molti altri musicisti e studiosi portarono avanti le ricerche di sperimentazione musicale e non posso non citarvi Brian Eno e i suoi famosi quattro album “Ambient” dal primo “Music for Airports” (1978) al quarto “On land” (1982) una “miscela” di note di sintetizzatore, suoni naturali/animali, alcuni anche ricavati da pezzi di catene, bastoni e pietre.


Theodor W. Adorno conclude la sua “Introduzione alla sociologia della musica” con la frase: «Ma più essenziale che stabilire l’origine dell’uno o dell’altro fatto è il contenuto: come cioè la società appare nella musica, come essa può essere decifrata dal suo contesto».

A nulla di ciò che esiste può essere preclusa la possibilità di diventare una determinante musicale: oggi si può dubitare che l’Universo intero sia un’armonia, ma potenzialmente è musicabile.

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La nascita del repertorio: dalle orchestre di musica classica alle cover band


Vi è mai capitato di sentire qualcuno dire: “Domani sera vado al concerto dei Pink Floyd” (oppure dei Queen, dei Led Zeppelin…) Quando mi succede rimango sempre un attimo perplessa: c’è la reunion e non lo so? È risorto qualcuno? Poi realizzo: la Tribute Band! D’altronde perché scandalizzarsi? Anche le orchestre di musica Classica alla fine non sono altro che delle patinatissime cover band… o no?

Riassumendo l’annosa diatriba “musica originale vs cover band” si arriva ad un paradosso del genere. Ormai le cover/tribute band che omaggiano i grandi della musica Pop e Rock sono sempre di più, anzi quasi la totalità dei gruppi che si esibiscono nei piccoli locali e club; ultimamente anche nei grandi teatri e festival, rientrando in cartellone accanto alle grandi star internazionali.


Quando è cominciato tutto? Nel corso della storia della Musica non è sempre esistito il concetto di “repertorio”, ovvero i grandi capolavori e musicisti immortali da conoscere, studiare e trasmettere a tutte le successive generazioni. La nostra posizione di ascoltatori oggi è molto diversa rispetto a quella di chi è vissuto secoli fa. Può sembrare strano, ma in passato il pubblico ascoltava i compositori della generazione presente e i musicisti studiavano al massimo quella di una o due generazioni precedenti. La musica più antica non interessava, cessava di esistere e lasciava il posto a nuove sonorità, più moderne e vicine al gusto del pubblico contemporaneo.

La dimensione di musicisti e ascoltatori – almeno per quanto riguarda la Storia della Musica occidentale – è iniziata a cambiare solo nel Settecento, con l’affermarsi del concetto di “classicità” applicato alla Musica. Si inizia a pensare che un’opera abbia un valore al di là della sua funzione contingente e che possa permanere nel tempo come capolavoro artistico. 

Anche l’affermarsi dell’editoria musicale e il diffondersi delle riduzioni per canto e pianoforte hanno in seguito contribuito ad orientare il pubblico verso una fruizione di tipo diverso, in cui il teatro era anche il luogo in cui assistere a nuove interpretazioni di opere già note. Storicamente gli studiosi hanno individuato uno dei momenti cardine di questo cambiamento nella prima esecuzione moderna della Passione Secondo Matteo di J.S. Bach, diretta da Felix Mendelssohn a Berlino nel 1829.

Dopo la sua morte (Lipsia, 1750) anche la musica di Bach era stata soppiantata dalle opere dei suoi successori, proprio per il modo che si aveva allora di concepire la musica. Suo figlio lo chiamava “vecchia parrucca” e come tutti gli preferiva autori più moderni: era già considerato sorpassato.

I circoli berlinesi in cui Mendelssohn era cresciuto hanno cominciato un inarrestabile percorso che mirava alla diffusione delle opere dei tempi passati. La Musica inizia così ad essere considerata in senso storico, con una sua evoluzione e con i suoi Maestri, così come accadeva già per le arti figurative, il teatro e la letteratura. Da fine Ottocento nei programmi di concerto, accanto alle musiche nuove, iniziano ad essere inserite anche le composizioni dei grandi del passato che nel Novecento finiranno per soppiantare quasi totalmente le opere di autori contemporanei.

Oggi il concetto di “repertorio” è fondamentale e il musicista classico che si dedica unicamente alle proprie composizioni o ad un repertorio contemporaneo è considerato uno specialista. La musica Classica contemporanea circola più in ambienti “di nicchia” che non in quelli mainstream e il repertorio che il pubblico ascolta in assoluta maggioranza e interesse è innegabilmente legato ai secoli passati.


Non sembra la descrizione di quello che sta succedendo ora? La storia è fatta di corsi e ricorsi, forse è il caso di chiederci se non siamo arrivati ad un punto di svolta così radicale anche per la musica Pop e Rock. A pensarci bene, tranne meteore passeggere create ad hoc per un pubblico di giovanissimi, da una decina di anni ad oggi sono pochi sono gli artisti ancora in auge, mentre i Big sono sempre più intramontabili (ad esempio: Achille Lauro farà veramente la carriera di Vasco, per quanto ne sentiremo parlare?). Nelle piccole realtà cittadine la situazione è ancora più lampante: i concerti di giovani musicisti che eseguono musica propria sono sempre meno, il pubblico interessato è pochissimo e sempre più “di nicchia”. Mentre sono seguitissime le tribute e cover band che con i loro concerti dedicati ai “grandi classici” della musica Rock e Pop riempiono anche teatri e palazzetti.

Beatles, Queen e Pink Floyd saranno i nuovi Mozart, Bach e Beethoven?

Merito dei musicisti del passato o demerito dei musicisti del presente? Colpa del music business? Colpa della musica liquida, di Spotify e dei talent show? “It’s evoloution baby!”

logica

Musica, comunicazione e linguaggio

La Musica è un mezzo di comunicazione?

Comunicare deriva dal Latino communicare a sua volta derivazione di communis (comune, che appartiene a tutti). La Treccani scrive: “rendere comune, far conoscere, far sapere; per lo più di cose non materiali. Per estens. dire qualcosa, confidare. Quindi anche divulgare, rendere noto ai più”.

Comunicare prevede un’interazione linguistica fra soggetti, grazie alla quale si raggiunge la condivisione di un sapere o di una volontà. È uno scambio reciproco di informazioni tra due o più persone. Come funziona? Il più noto modello di comunicazione è quello teorizzato dal linguista strutturalista Roman Jakobson che ne individua sei componenti fondamentali:

  • MITTENTE: il soggetto che invia una comunicazione ad un destinatario
  • MESSAGGIO: l’oggetto dello scambio comunicativo
  • DESTINATARIO: colui che riceve il messaggio
  • CODICE: il linguaggio attraverso cui viene formato il messaggio che deve essere condiviso da mittente e destinatario
  • CANALE: la connessione tra mittente e destinatario che consente al messaggio di essere comunicato
  • CONTESTO: le circostanze in cui la comunicazione avviene

Il mittente invia un messaggio al destinatario. Per essere operante, il messaggio richiede in primo luogo il riferimento a un contesto che possa essere afferrato dal destinatario, e che sia verbale o suscettibile di verbalizzazione; in secondo luogo esige un codice interamente, o almeno parzialmente, comune al mittente e al destinatario. Infine, un contatto, una connessione fra il mittente e il destinatario, che consenta loro di stabilire e di mantenere la comunicazione.

Per semplificare la spiegazione, si può pensare ad uno scambio di lettere: il mittente “codifica” un messaggio attraverso un codice e al punto di arrivo il destinatario, attraverso lo stesso codice, lo “decodifica” e ricostruisce nella sua mente quello che il mittente ha voluto comunicargli.

Per la Musica come funziona?

Nella Musica il mittente è l’autore? Però la Musica non esisterebbe se non ci fosse l’esecutore, e spesso autore ed esecutore sono due figure distinte. Anche il destinatario è indefinibile in ambito musicale, perché la Musica appartiene a tutti, chiunque la può ascoltare (ricevere) e in modi molto diversi, basta pensare alla sovraesposizione a cui siamo sottoposti nella nostra società attuale.

E il codice? Qual è? È condiviso da mittente e destinatario? Qui si gioca la differenza tra il professionista, il musicista e tutte le possibili differenze di approccio all’ascolto musicale di cui parlavo citando Adorno. Senza contare le civiltà diverse dalla nostra Occidentale di cui non condividiamo i codici musicali. Anche il messaggio è di difficile definizione: se è presente un testo lo si può cercare lì; se si tratta di musica strumentale la situazione è più complessa, anche se possono esserci degli espedienti che rinviano a messaggi universali come un ritmo incalzante, un andamento lento, i differenti timbri degli strumenti etc…

La comunicazione però si realizza solo nel caso in cui vi sia piena condivisione del codice da parte di emittente e ricevente che deve preesistere alla comune esperienza comunicativa. Su questa base come si può parlare di comunicazione musicale? Soprattutto in un’epoca come la nostra dove la musica assume un ruolo di semplice trasmettitore unidirezionale di informazioni, ricevibili a prescindere dalla loro intelligibilità.

Oggi siamo quasi dei soggetti involontari sottoposti ad un sovradimensionamento dell’ascolto a cui spesso è impossibile sottrarsi.  

Questo inibisce la nostra sensibilità musicale che viviamo come un’attitudine latente (nei bambini sorgono esperienze musicali prima della linguistica): la si possiede, ma non si sa di possederla. Possiamo riconoscere e cantare una canzone senza avere nessuna nozione della natura strutturale e compositiva del pezzo.

L’ascoltatore è liberato da possedere competenze musicali, dal condividere un codice (per tornare al modello della comunicazione di Jakobson), e quando ascolta attiva un “processo soggettivo” che vede la musica come un centro neutro, manipolabile.

Questi concetti si rifanno alle teorie, discusse, del musicologo francese Jean-Jacques Nattiez autore di numerosi saggi nell’ambito della musicologia, dell’analisi e della semiologia musicale tra cui “Fondements d’une sémiologie de la musique” (1975) in cui ha applicato i modelli della linguistica strutturale all’analisi musicale utilizzando il modello della “tripartizione semiologica” già elaborato dal semiologo Jean Molino.

È un modello più pertinente per la comunicazione musicale anche se contrasta con quello di Jakobson: il creatore dell’opera (mittente) e l’ascoltatore (ricevente) attivano entrambi un processo di comprensione nei confronti del messaggio che quindi può influenzarne il significato.

Il mittente nell’atto della creazione attiva un “processo poietico” che coinvolge esecutore, compositore e preesiste all’opera stessa. Il ricevente durante l’ascolto attua un “processo estesico” attivo di ricostruzione cosciente o meno cosciente che influenzerà l’oggetto musicale. Il ricevente qui ha un ruolo attivo e indipendente dal mittente nel decifrare il messaggio del compositore (e può riuscirci o meno).

In mezzo ai due processi si pone a livello neutro l’oggetto musicale, l’opera, che può essere analizzata e consumata in totale libertà. Questo va contro le regole della comunicazione secondo cui la condivisione del codice è fondamentale. Anche se non dobbiamo dimenticare che quando parliamo di Musica siamo costretti ad usare un altro mezzo di comunicazione per spiegarla ovvero, come dice Nattiez, creiamo delle sovrastrutture che con la Musica non hanno nulla a che vedere.

La Musica è un sistema simbolico che non rimanda direttamente a oggetti, esperienze e concetti specifici, ma è comunque un insieme di codici dotato di regole, convenzioni, facoltà espressive, funzioni sociali e libertà creativa che variano ed evolvono secondo l’epoca e il luogo.

Alla luce di tutte queste riflessioni chiudo con una domanda: la Musica è un linguaggio universale?

musica

Che tipo di ascoltatore sei?

vinili e cuffia audio


Ascolti davvero la musica? O la maggior parte delle volte la senti?

Tra sentire ed ascoltare c’è una grande differenza, non sono due sinonimi. “Sentire” è semplicemente l’atto di percepire un suono attraverso il nostro sistema uditivo; “ascoltare” invece prevede l’attenzione, pensare e ragionare su quanto si sente. Da qui nascono due macro-categorie in cui si può suddividere il modo in cui ci approcciamo alla musica: con un ascolto attivo o passivo.

  • L’ascolto passivo è l’ascolto distratto della musica oggi percepita come colonna sonora della vita: siamo abituati ad avere musica in sottofondo praticamente ovunque, in televisione, nei centri commerciali, alla radio, in auto, molti la “ascoltano” anche durante il lavoro o lo studio.
  • L’ascolto attivo richiede attenzione. Ci può essere chi ascolta tentando di capirne la tecnica, chi si interessa all’aspetto storico come la contestualizzazione del brano e­ del compositore, o chi cerca di comprenderne il messaggio e il valore in quanto mezzo di comunicazione.

Tra questi due mondi lontani esistono diverse sfumature, non è mai tutto bianco o nero! Una delle più note distinzioni delle diverse tipologie dei comportamenti musicali è quella stilata dal musicologo, sociologo, filosofo Theodor W. Adorno, prima delle sue dodici lezioni di Sociologia della Musica, pubblicate nel testo “Introduzione alla sociologia della musica” del 1962. Sono passati diversi anni, ma con i dovuti parallelismi è ancora molto valida.

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Sei tipologie ideali di ascoltatori che non pretendono di essere assolute, ma è uno schema utile all’indagine sociologica relativa al consumo della musica nella nostra società:


1. L’ESPERTO
Solitamente l’ascoltatore esperto è un musicista professionista, dotato di una preparazione tecnica che gli permette di comprendere le strutture musicali del brano. Non gli sfugge nulla e si rende conto in ogni istante di cosa sta ascoltando. Non è detto però che abbia la qualità e la capacità di intendere la musica come “linguaggio” nelle sue risonanze interiori e culturali.


2. IL BUON ASCOLTATORE
È in grado di percepire istintivamente la logica immanente della musica ed è in grado di coglierne il prestigio. Non è del tutto consapevole delle implicazioni tecniche e strutturali, le avverte in modo inconscio. «Capisce la musica all’incirca come uno capisce la propria lingua, anche se sa poco o niente della grammatica e della sintassi». 

3. IL CONSUMATORE DI CULTURA
Colleziona dischi, è informato su ogni particolare biografico e nozionistico, ascolta molto e in alcuni casi è insaziabile, va sempre ai concerti dando giudizi positivi o negati sulle esecuzioni. Rispetta la musica in quanto bene culturale, spesso come qualcosa che bisogna conoscere per il proprio prestigio sociale: tale atteggiamento va dalla sensazione di un serio impegno fino al volgare snobismo.

È l’uomo dell’apprezzamento, il piacere di ciò che la musica gli dà supera il piacere della musica stessa, intesa come opera d’arte che esige tutto il suo impegno. «Gli incutono rispetto la tecnica, il mezzo fine a se stesso, e in tal senso egli non è affatto lontano dall’ascolto massificato oggi diffuso. Però si atteggia a nemico della massa, a uomo d’élite». Conformista e convenzionalista è quasi sempre ostile alla nuova musica e infuria contro “questa robaccia”.


4. L’ASCOLTATORE EMOTIVO
Non vuole sapere nulla sulla musica e preferisce abbandonarsi al flusso sonoro. La musica ha una funzione liberatrice e diviene un mezzo in cui riversare le proprie emozioni o trarre emozioni di cui sente la mancanza. Ha reazioni emotive forti durante l’ascolto, ad esempio piange facilmente, ma si rifiuta di approfondire la conoscenza di ciò che sta ascoltando.

5. L’ASCOLTATORE RISENTITO
Si suddivide in due categorie: colui che ascolta solo musica preromantica disprezzando tutto il resto e il fan del Jazz. Sono esperti, ottusamente settari, vigilano sull’assoluta fedeltà esecutiva attenti che non ci si discosti dal minimo particolare alla ricerca di un ideale fine a se stesso. Il primo ama Bach e Vivaldi che ritiene immuni dalla mercificazione; il secondo polemizza contro il Jazz commerciale e la musica Leggera e non prende neppure in considerazione la musica classica o romantica.
Entrambi rimangono vincolati all’interno di un ambito molto ristretto e ignorano interi settori musicali che invece sarebbe importante conoscere.


6. CHI ASCOLTA MUSICA PER PASSATEMPO
È il gruppo più numeroso e dal punto di vista Sociologico quello di maggior importanza. Secondo Adorno: «l’ascoltatore per passatempo è l’oggetto dell’industria culturale, vuoi che questa gli si adegui, vuoi che sia lei stessa a crearlo o a metterlo in luce».
La musica per lui non è nesso significante, ogni critica o approfondimento gli è estraneo, è solo fonte di stimoli come per l’ascoltatore emotivo, ma il tutto è appiattito dal bisogno di musica intesa come comfort che aiuti a distrarsi. Ad esempio, si lascia sommergere dalla musica trasmessa dai mass-media come radio, cinema e televisione, senza ascoltare sul serio. Questo tipo di ascolto è paragonato all’atto di fumare: viene definito più dal disagio che si prova quando si spegne che dal godimento che si prova finché è accesa.


E tu, che tipo di ascoltatore sei?