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Che musica si cerca su Google?

Il motore di ricerca Google lo conosciamo tutti, è il più usato al mondo per cercare qualcosa nel web. Forse non tutti sanno dell’esistenza di Google Trends: uno strumento di analisi (gratuito) che offre un enorme database di informazioni sulle oltre 5 miliardi di ricerche che vengono effettuate quotidianamente su Google.

Quali sono gli argomenti più gettonati? Le parole chiave (keyword) più cercate? Le tendenze del momento? Cosa cerca “la gente” su Google?

Google Trends ha le risposte a tutte queste domande e anche ad una mia curiosità: quali sono le ricerche più gettonate associate alla musica? Che “musica” cerca la gente su Google?

Questo è il risultato:

Dati relativi al periodo 3/07/2019 – 3/07/2020
(il valore numerico si riferisce all’indice di interesse, espresso con un punteggio da 0 a 100)

Questi sono i primi 15 risultati delle ricerche più popolari effettuate nel motore di ricerca Google durante l’ultimo anno in Italia associate alla parola “musica”. Risultato evidente e schiacciante: scaricare musica. Gratis. Scaricare, non ascoltare, ovviamente.

Non c’è una curiosità per qualcosa di relativo alla musica, un musicista ad esempio, una canzone (da segnalare un’impennata a febbraio 2020 della ricerca “musica e il resto scompare” titolo del brano presentato da Electra Lamborghini a Sanremo). Interessante notare come la musica “classica” superi di una posizione la musica “italiana”, entrambe battute dalla musica “rilassante” al quarto posto.

Per il resto tranne il revival della “musica anni 80” che appare in fondo classifica (ma lo sappiamo che non se ne esce vivi dagli anni ’80!) il resto è sconfortante: quello che interessa maggiormente è trovare il modo di scaricare musica, gratuitamente, o ascoltarla, sempre gratuitamente, su YouTube. E di modi per farlo legalmente o illegalmente il motore di ricerca risponde con pagine e pagine di link.

Questo mi richiama alla mente una recente intervista al Prof. Alessandro Barbero, storico e notissimo divulgatore lanciato dal programma Superquark di Piero Angela. L’intervista (che potete vedere qui) ha come tema l’insegnamento della Storia e Barbero sottolinea come sia difficile far amare agli studenti una materia così noiosa – se limitata allo stretto nozionismo scolastico – ma in realtà così appassionante e avvincente; dopotutto si parla di “noi”, è la storia dell’umanità, del nostro passato.

Con la Musica penso che la partenza sia opposta e il risultato non si discosti troppo: a tutti piace la musica, tutti la ascoltano, hanno voglia di ascoltarla e si ingegnano con metodi più o meno legali per poterla ascoltare “facilmente”. Ma a quanti poi interessa davvero approfondirla come arte, come portatrice di storia e cultura, al di là di possederla come un bene di consumo che fa compagnia e sottofondo?

Perché si cercano tutti i modi possibili per scaricarla, anche illegalmente, piuttosto che acquistarla? Siamo al paradosso per cui, abituati alla musica gratis, si spendono centinaia di euro per cuffie e altoparlanti da esibire come capi di abbigliamento di lusso e collegare a smartphone costosissimi, ma si faticano a pagare 10 euro al mese per un abbonamento che dà accesso ad un catalogo infinito di 35 milioni di canzoni.

E non è un processo causato dalla musica liquida, che lo ha solo aumentato. I dischi si copiavano anche su cassetta negli anni ’80. È un problema di soldi? Di mentalità? Aveva ragione Adorno quando negli anni ’50 e ’60 tuonava contro la massificazione alienante degli individui messa in atto dall’industria culturale? La tecnologia ha avvilito l’arte, l’ha resa un bene di consumo distorcendone il significato?

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Il valzer, un ballo scandaloso

Se si dovessero elencare dei balli che nel corso della loro storia sono stati proibiti perché ritenuti scandalosi, vengono facilmente alla mente il tango o il rock’n’roll. E immediatamente il nostro immaginario ci riporta alla mente il film cult “Dirty Dancing” (tradotto in italiano con “Balli proibiti”) del 1987 con Patrick Swayze e Jennifer Grey, entrato nella storia del cinema, trainato anche da una colonna sonora storica che ha fatto impazzire milioni di fan in tutto il mondo.

Avreste mai pensato di dover aggiungere a questo elenco anche il valzer? Il ballo romantico per eccellenza la cui melodia rimanda a scenari principeschi e alle atmosfere fiabesche delle sale da ballo della Vienna ottocentesca. Eppure, proprio come avvenne per il rock’n’roll e per il tango, anche il valzer all’inizio della sua storia venne considerato scandaloso, volgare e indecente.

Patrick Swayze Love GIF - Find & Share on GIPHY

Le sue origini sono umili, popolari e controverse: il nome deriva dal tedesco “walzen” che significa “girare”, ed è una danza in ritmo ternario che si diffuse verso la fine del ‘700 in Austria e nella Germania meridionale fino a diventare la protagonista indiscussa del secolo successivo. Si dice derivi dal “ländler” un ballo popolare austriaco caratteristico delle regioni montane, come il Tirolo e la Stiria; altri studiosi invece ritengono che derivi dalla “volta”, un ballo in misura ternaria proveniente dalla Provenza.

All’inizio dell’Ottocento il valzer ebbe una grande presa tra i più giovani come espressione della nascente borghesia, la nuova società che si stava lasciando alle spalle gli antichi costumi aristocratici. Era un ballo simbolo di libertà totalmente diverso nel modo di danzare dagli ingessati balli di corte dove ci si limitava a prendersi per mano in complicate coreografie, come il minuetto. Il valzer era un ballo di coppia che permetteva per la prima volta ai ballerini di stringersi e danzare volteggiando in un vertiginoso abbraccio, una sensazione di libertà assoluta.

Per questo venne osteggiato dagli spiriti più conservatori, era immorale che una coppia ballasse a così stretto contatto. Ne parlò anche Goethe ne “I dolori del giovane Werther” (1774): «Non mi sono mai sentito così sciolto, leggero: non ero più nemmeno un uomo. Avere tra le mie braccia la più adorabile delle creature, farsi travolgere con lei in un turbine, svelti come la saetta, e non percepire più nulla intorno a sé…». Monotono e folle” lo definisce Puskin; una danza che “può inebriare i giovani cuori, far sparire la timidezza e concedere l’audacia di amare” nota Stendhal; Madame de Genlis, istitutrice del futuro re Luigi Filippo di Francia, disse che il valzer avrebbe fatto smarrire qualsiasi fanciulla onesta che l’avesse ballato e nel 1833 un manuale britannico di buone maniere lo sconsigliava alle donne non sposate, perché era «un ballo troppo immorale per le signorine».

Era un ballo troppo immorale per le signorine.

Grazie a questo contatto ravvicinato il valzer permetteva lo scambio di confidenze tra le coppie che ballavano, ne favoriva l’intimità in un ondeggiare sinuoso e travolgente.
Il valzer si diffuse rapidamente in tutta Europa, e in Francia fu Maria Antonietta, la sposa austriaca di Luigi XVI, ad introdurlo alla corte di Versailles e trasformarlo nel ballo da sala per eccellenza. L’aumento della popolarità di questa danza deve molto ai compositori austriaci Johann Strauss padre (1804-1849) e Johann Strauss figlio (1825-1899) che trasformarono una semplice danza contadina in opere piene di brio e di musicalità, destinate a un pubblico molto più raffinato.

Ed è proprio Johann Strauss figlio il compositore del valzer per eccellenza, il famosissimo “Sul bel Danubio blu”. A metà Ottocento il valzer era già diventato il re assoluto dei saloni delle classi aristocratiche in tutta Europa, uno dei tanti segnali che i tempi stavano cambiando (a passo di danza!).

Johann Strauss – “Sul bel Danubio blu”
New Year’s Concert 2011 – Vienna Philharmonic Orchestra


Immagine di copertina: Auguste Renoir “Dance at Bougival“, 1882-1883.

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La musica non fa valentuomini, ma buffoni

Se vi dicessi che il Ministro dell’Istruzione ha dichiarato che la musica non va insegnata a scuola perché «non fa valentuomini, ma buffoni» mi credereste?

È tutto vero. Siamo nel 1865 e Francesco De Sanctis, Ministro dell’Istruzione nel 1861, consigliò al suo successore Giuseppe Natoli dalle colonne del giornale “L’Italia” di non insegnare alcune materie ritenute superflue e ne elencava alcune tra cui il Francese, la ginnastica e “il ballo” ad indicare con spregio la Musica.

Tutta questa roba, non bisogna, non si può digerire, non fa valentuomini, ma buffoni. Quello che i giovanetti debbono saper bene è la loro lingua, scriverla correttamente, esprimere i loro pensieri con ordine e semplicità; poi saper la storia e la geografia, l’aritmetica, la geometria e principi di algebra. […] Il neces­sario per i giovanetti non sono le cognizioni, ma l’acquistar l’abito di ragionare giusto, di fermarsi su le cose, di considerarle per ogni verso. Acquistato quest’abito, acquistato il giudizio, si vola poi sopra tutto il sapere, si comprende facilmente, si legano insieme le cognizioni che si vengono acquistando.

Il testo fu ripubblicato nel libro di Francesco De Sanctis “L’istruzione media. Omaggio alla casa editrice Laterza nel X Congresso della Federazione Nazionale fra gl’insegnanti delle Scuole Medie” (Laterza, 1919). Per De Sanctis, gli alunni non devono acquisire «le cognizioni, ma l’acquistar l’abito di ragionare giusto»: la musica e le discipline artistiche in generale, secondo il letterato, non si confanno a tale scopo. O meglio, leggendo per intero l’articolo, il senso del discorso di De Sanctis era che per voler insegnare troppo, si rischia di finire per non insegnare nulla.

Sono passati 155 anni, alcune materie si sono attivate, ma certi pregiudizi non sono molto cambiati. Fare il musicista non viene considerato come un mestiere, ma un hobby, un passatempo, un capriccio, una sorta di moderno giullare alla mercé delle corti televisive. La Musica non è arte: è un sottofondo sonoro delle nostre giornate, la colonna sonora di viaggi in auto, qualcosa da canticchiare sotto la doccia.

In realtà lo sappiamo che la Musica è importante, che è Cultura, che alcune canzoni dovrebbero addirittura essere insegnate a scuola, ma in fondo “sono solo canzonette” e non le prendiamo mai troppo sul serio. Forse la colpa è di alcuni buffoni che riempiono le pagine dei giornali e dei programmi televisivi che si nutrono di scandali e gossip, aumenta lo share e aumenta il fatturato.

Dovrebbe cambiare il modo di approcciarsi alla Musica cercando di capirla per il suo valore: da un ascolto passivo passare ad un ascolto attivo. Il significato della Musica non sta solo negli oggetti musicali, ma in ciò che la gente fa con la musica: come la sia ascolta, come la si suona e perché. Studiare la Musica non è solo studiare la storia delle opere e dei grandi nomi: è la storia degli uomini che hanno fatto, ascoltato e parlato di musica.

Parlare di musica è parlare della società di ieri e di oggi. Parlare di Musica è parlare di storia, di arte, di comunicazione, di evoluzione, rivoluzione, pensiero, progresso e scoperta. Ma anche di matematica, geometria, scienza, filosofia, psicologica, medicina… Ci si potrebbe basare un intero programma scolastico!

È un mondo che va scoperto cercando con curiosità di
ascoltare (audio)
osservare (video)
imparare (disco).

Puoi ascoltare questo articolo nella sua versione Podcast cliccando qui.

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Un computer, un sogno e la musica di Giorgio Moroder

computer smiling


Che cos’è la Musica? Tra le mille risposte possibili, la Musica è anche un mezzo di comunicazione. È un linguaggio. Utilizza un sistema simbolico, un insieme di codici, regole, convenzioni, funzioni sociali che variano e si evolvono a seconda dell’epoca e del luogo in cui viene prodotta.

Come ogni linguaggio non è “universale”, ma bisogna conoscere la sua grammatica per poterlo comprendere. Certo è che la musica non si esprime a parole (se escludiamo i testi e consideriamo la parte puramente strumentale), ma con suoni, tante piccole note che compongono accordi e melodie… Potremmo quasi fantasticare di un mondo in cui sia la musica l’unico mezzo di comunicazione, d’altronde hanno già scritto di un mondo fatto solo di geometria!

Mi è tornato alla mente un vecchio film “Electric Dreams” (1984) di Steve Barron (regista di videoclip di culto come “Take on me” degli A-Ah, “Billie Jean” di Micheal Jackson, “Rough Boy” degli ZZ Top), con sceneggiatura di Rusty Lemorande e musiche di Giorgio Moroder. Una commedia fantascientifica che vede il primo “triangolo amoroso” tra un ragazzo, una ragazza e un computer. Un Cyrano de Bergerac dei nostri giorni dove protagonista è la musica!

Ho sempre amato la musica e il suo rapporto con l’uomo, non soltanto come divertimento, ma anche come mezzo di comunicazione.

Rusty Lemorande

“Ero sulla metropolitana di Chicago quando vidi un bambino che giocava con un piccolo computer parlante invece che parlare con sua madre” ricorda Lemorande. “Sono sempre stato affascinato dalla tecnologia in generale e volevo scrivere una sceneggiatura nell’era dei computer (un’era in rapido sviluppo), inserendo l’elettronica e la tecnologia del computer, esaminando in che modo l’uomo ha creato strumenti in grado di liberarlo per consentirgli una migliore comunicazione con i propri simili, e in che modo poi ha permesso che questi strumenti sortissero l’effetto opposto. Quel bambino in metropolitana mi restò impresso”.

La colonna sonora del film ha pezzi come “Karma Chameleon” e “Do You Really Want to Hurt Me” dei Culture Club, “You Can’t Hurry Love” di Phil Collins, ma soprattutto ha avuto la fortuna di avere delle musiche composte appositamente dal genio di Giorgio Moroder.

Una tra tutte è “The Duel” ed è la protagonista di una delle scene più romantiche del film. Un duetto tra la protagonista, violoncellista, mentre si sta esercitando su un brano di musica classica e il “vicino di casa”, un computer che inizia ad interagire con lei e se ne innamorerà. Ad unire questi due mondi è la musica.

Prima di lasciarvi alla visione di questa scena del film, una curiosità: la melodia portante del brano di Moroder è famosissima, l’avrete sicuramente sentita molte volte. Si tratta del Minuetto in Sol maggiore (BWV 114) erroneamente attributo da sempre a Johann Sebastian Bach, mentre recenti studi hanno confermato che la paternità va al compositore e organista tedesco Christian Petzold (1677 – 1733).

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La nascita del repertorio: dalle orchestre di musica classica alle cover band


Vi è mai capitato di sentire qualcuno dire: “Domani sera vado al concerto dei Pink Floyd” (oppure dei Queen, dei Led Zeppelin…) Quando mi succede rimango sempre un attimo perplessa: c’è la reunion e non lo so? È risorto qualcuno? Poi realizzo: la Tribute Band! D’altronde perché scandalizzarsi? Anche le orchestre di musica Classica alla fine non sono altro che delle patinatissime cover band… o no?

Riassumendo l’annosa diatriba “musica originale vs cover band” si arriva ad un paradosso del genere. Ormai le cover/tribute band che omaggiano i grandi della musica Pop e Rock sono sempre di più, anzi quasi la totalità dei gruppi che si esibiscono nei piccoli locali e club; ultimamente anche nei grandi teatri e festival, rientrando in cartellone accanto alle grandi star internazionali.


Quando è cominciato tutto? Nel corso della storia della Musica non è sempre esistito il concetto di “repertorio”, ovvero i grandi capolavori e musicisti immortali da conoscere, studiare e trasmettere a tutte le successive generazioni. La nostra posizione di ascoltatori oggi è molto diversa rispetto a quella di chi è vissuto secoli fa. Può sembrare strano, ma in passato il pubblico ascoltava i compositori della generazione presente e i musicisti studiavano al massimo quella di una o due generazioni precedenti. La musica più antica non interessava, cessava di esistere e lasciava il posto a nuove sonorità, più moderne e vicine al gusto del pubblico contemporaneo.

La dimensione di musicisti e ascoltatori – almeno per quanto riguarda la Storia della Musica occidentale – è iniziata a cambiare solo nel Settecento, con l’affermarsi del concetto di “classicità” applicato alla Musica. Si inizia a pensare che un’opera abbia un valore al di là della sua funzione contingente e che possa permanere nel tempo come capolavoro artistico. 

Anche l’affermarsi dell’editoria musicale e il diffondersi delle riduzioni per canto e pianoforte hanno in seguito contribuito ad orientare il pubblico verso una fruizione di tipo diverso, in cui il teatro era anche il luogo in cui assistere a nuove interpretazioni di opere già note. Storicamente gli studiosi hanno individuato uno dei momenti cardine di questo cambiamento nella prima esecuzione moderna della Passione Secondo Matteo di J.S. Bach, diretta da Felix Mendelssohn a Berlino nel 1829.

Dopo la sua morte (Lipsia, 1750) anche la musica di Bach era stata soppiantata dalle opere dei suoi successori, proprio per il modo che si aveva allora di concepire la musica. Suo figlio lo chiamava “vecchia parrucca” e come tutti gli preferiva autori più moderni: era già considerato sorpassato.

I circoli berlinesi in cui Mendelssohn era cresciuto hanno cominciato un inarrestabile percorso che mirava alla diffusione delle opere dei tempi passati. La Musica inizia così ad essere considerata in senso storico, con una sua evoluzione e con i suoi Maestri, così come accadeva già per le arti figurative, il teatro e la letteratura. Da fine Ottocento nei programmi di concerto, accanto alle musiche nuove, iniziano ad essere inserite anche le composizioni dei grandi del passato che nel Novecento finiranno per soppiantare quasi totalmente le opere di autori contemporanei.

Oggi il concetto di “repertorio” è fondamentale e il musicista classico che si dedica unicamente alle proprie composizioni o ad un repertorio contemporaneo è considerato uno specialista. La musica Classica contemporanea circola più in ambienti “di nicchia” che non in quelli mainstream e il repertorio che il pubblico ascolta in assoluta maggioranza e interesse è innegabilmente legato ai secoli passati.


Non sembra la descrizione di quello che sta succedendo ora? La storia è fatta di corsi e ricorsi, forse è il caso di chiederci se non siamo arrivati ad un punto di svolta così radicale anche per la musica Pop e Rock. A pensarci bene, tranne meteore passeggere create ad hoc per un pubblico di giovanissimi, da una decina di anni ad oggi sono pochi sono gli artisti ancora in auge, mentre i Big sono sempre più intramontabili (ad esempio: Achille Lauro farà veramente la carriera di Vasco, per quanto ne sentiremo parlare?). Nelle piccole realtà cittadine la situazione è ancora più lampante: i concerti di giovani musicisti che eseguono musica propria sono sempre meno, il pubblico interessato è pochissimo e sempre più “di nicchia”. Mentre sono seguitissime le tribute e cover band che con i loro concerti dedicati ai “grandi classici” della musica Rock e Pop riempiono anche teatri e palazzetti.

Beatles, Queen e Pink Floyd saranno i nuovi Mozart, Bach e Beethoven?

Merito dei musicisti del passato o demerito dei musicisti del presente? Colpa del music business? Colpa della musica liquida, di Spotify e dei talent show? “It’s evoloution baby!”